Ogni componente innovativa merita una strategia legale dedicata.
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Per una startup che sviluppa un’invenzione complessa, decidere come proteggere legalmente la propria tecnologia è una scelta strategica. Meglio un brevetto unico sul sistema complessivo o una serie di brevetti distinti sulle singole parti innovative? L’articolo analizza i criteri tecnici e legali per orientare questa scelta, spiegando perché brevettare “troppo in fretta” può compromettere la protezione futura. Viene approfondito il concetto di autonomia brevettuale delle componenti, il rischio della pre-divulgazione tecnica, e l’importanza di costruire un portafoglio di diritti ben congegnato. Senza un brevetto solido, nessun investitore investirà seriamente in una startup tech: la proprietà intellettuale non è un dettaglio, ma la condizione per difendere, valorizzare e rendere scalabile l’innovazione.
Una “invenzione complessa” è un’innovazione composta da più elementi che cooperano tra loro per generare un effetto tecnico. Nella pratica delle startup, questa situazione è più la regola che l’eccezione: spesso un prodotto innovativo integra hardware, software, algoritmi e componenti meccanici, ciascuno con una propria funzione. Ma come si protegge legalmente una struttura così articolata?
La legge non lascia spazio a dubbi: una sola domanda di brevetto può riguardare una sola invenzione, o un insieme di invenzioni tra loro collegate da un concetto inventivo unitario. È questo il cosiddetto principio di unitarietà dell’invenzione, sancito in Italia dall’art. 161 del Codice della Proprietà Industriale (CPI) e, in ambito europeo, dall’art. 82 della Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE).
Che cosa implica, in concreto? Se tutte le parti dell’invenzione collaborano per ottenere un effetto unico, allora la legge consente di brevettarle insieme il trovato. Ma se ogni componente ha vita propria, con possibili applicazioni indipendenti, serve un brevetto separato per ciascuna.
Immaginiamo una startup che sviluppi un sistema IoT composto da:
Se questi tre elementi sono tecnicamente integrati in modo inscindibile, allora si può tentare un brevetto unitario. Ma se ogni parte è innovativa e potenzialmente riutilizzabile in altri prodotti, sarà necessario (e consigliabile) spezzare la protezione in più brevetti distinti.
Questo primo principio giuridico, spesso trascurato, è invece il punto di partenza per ogni strategia brevettuale intelligente. In assenza di unitarietà, la tutela brevettuale risulta potenzialmente controvertibile. Ma anche quando è ammessa, è sempre opportuno chiedersi: “il valore dell’invenzione sta nell’insieme o nelle sue parti?”
Davanti a un’invenzione complessa, la prima domanda strategica che una startup deve porsi è: conviene tutelare l’intera architettura tecnologica con un solo brevetto, oppure scomporla in più brevetti specifici, ciascuno dedicato a un componente chiave?
Optare per un brevetto unico significa descrivere e rivendicare l’invenzione nel suo insieme: un sistema dove l’interazione tra le parti produce un effetto tecnico nuovo proprio perché integrato. È una scelta che premia la sinergia inventiva: anche se i singoli elementi non sarebbero brevettabili da soli, il loro abbinamento può rappresentare una soluzione originale e quindi tutelabile. In questo caso, il brevetto funge da “ombrello” sull’intero sistema.
I vantaggi? Costi iniziali più contenuti, gestione più semplice, e una protezione immediata sull’idea generale. Tuttavia, ci sono aspetti da non sottovalutare: il brevetto sull’intero sistema non estende automaticamente la protezione ai suoi componenti, se questi non sono opportunamente rivendicati. Di conseguenza, un concorrente potrebbe legittimamente riutilizzare uno degli elementi dell’invenzione complessa in un altro contesto, eludendo la tutela.
Ma il rischio maggiore è un altro, e spesso viene ignorato: descrivere un componente innovativo all’interno di un brevetto complesso – senza averlo protetto prima in modo autonomo – può compromettere irrimediabilmente la sua brevettabilità futura. La pubblicazione della domanda rende pubblico ogni dettaglio tecnico contenuto nella descrizione. Quel contenuto diventa stato dell’arte, e anche se proviene da voi, può essere usato contro di voi per respingere una successiva domanda sullo stesso elemento. È un classico caso di auto-sabotaggio brevettuale: nella foga di proteggere l’insieme, agendo frettolosamente, si rischia di bruciare le parti.
La sequenza più sicura, quindi, è spesso l’inversa di quanto si crede: prima si proteggono le parti che hanno valore autonomo, poi si valuta se brevettare anche l’insieme. Se invece si parte dal sistema complessivo, è fondamentale che il testo della domanda sia redatto con attenzione, includendo rivendicazioni specifiche per ciascun componente, se possibile. Ma questa opzione va discussa a fondo con un consulente, perché rischia di scontrarsi con il principio di unitarietà dell’invenzione.
Molte aziende preferiscono dunque la strada dei brevetti multipli. Ogni componente innovativo – se ha dignità brevettuale autonoma – può e dovrebbe essere protetto singolarmente. Questo approccio offre maggiore flessibilità commerciale, una copertura più mirata e più occasioni di valorizzazione (licenze, cessioni, partnership). Naturalmente, comporta costi più elevati e richiede un’attenta pianificazione strategica ed economica.
Le due strategie non si escludono: possono e spesso devono coesistere. Un portafoglio ben costruito nasce dalla consapevolezza delle caratteristiche tecniche dell’invenzione e da una valutazione seria delle sue potenzialità commerciali. Il vero vantaggio competitivo non sta nell’avere genericamente un brevetto, ma nell’avere il miglior brevetto possibile, senza lasciarsi prendere dall’entusiasmo e senza peccare di presunzione o, ancor peggio, di approssimazione.
Nel mondo delle invenzioni complesse, ogni componente è come una tessera del mosaico. Ma non tutte hanno lo stesso peso. Alcune parti sono solo funzionali all’insieme, altre invece hanno valore tecnico e commerciale indipendente, tanto da poter meritare una tutela specifica. Capire quali parti “valgono da sole” è una domanda fondamentale che deve porsi chi guida una startup. La risposta, però, si può trovare solo con l’aiuto di un tecnico brevettista esperto del settore e di un avvocato specializzato in proprietà intellettuale.
Un componente ha valore brevettuale autonomo se:
Prendiamo l’esempio di una startup che sviluppa un dispositivo per la diagnostica medica: se il sensore integrato è in grado di rilevare un parametro biologico in modo completamente nuovo, è verosimile che quello stesso sensore possa essere usato anche in applicazioni sportive, ambientali o industriali. In questo caso, non proteggerlo in modo autonomo sarebbe un errore strategico: si perderebbe l’opportunità di controllare l’uso di quell’invenzione anche fuori dal proprio settore, e di monetizzare tramite licenze a terzi.
La stessa logica vale per il software. Un algoritmo proprietario, se risolve un problema tecnico (come migliorare l’efficienza energetica, ottimizzare una rete o riconoscere pattern nei dati), può diventare una tecnologia stand-alone. E se è stand-alone, può essere anche brevettata separatamente, a patto che venga presentato come metodo tecnico e non come semplice codice astratto (approfondisci: Gli strumenti di tutela legale del software di M. Manca).
Attenzione, però: brevettare una parte non ha senso se quella parte non è “inventiva” da sola. In molti casi, la novità sta proprio nella combinazione tra elementi, mentre i singoli moduli sono già noti o banali. In questi casi, isolare le parti per brevettarle può portare al rigetto delle domande per mancanza di attività inventiva. Occorre dunque una valutazione tecnica attenta, fatta da un consulente in proprietà industriale, per capire quali elementi reggono sulle proprie gambe e quali no.
In conclusione, non tutte le parti meritano un brevetto proprio, ma quelle che hanno autonomia tecnica e applicabilità trasversale sì. Riconoscerle, proteggerle e valorizzarle significa trasformare una singola invenzione in un portafoglio di diritti. È così che si costruisce un patrimonio tecnologico scalabile, capace di generare ricavi, attirare investimenti e, talvolta, di vivere una vita ben oltre il prodotto o il “concept” iniziale (approfondisci: È possibile proteggere un “concept” o un “modello organizzativo”?).
Per una startup innovativa, la sfida non è solo avere un’idea brillante, ma proteggerla in modo sostenibile. E la sostenibilità, in questo caso, riguarda sia il budget disponibile, sia la scalabilità del progetto. La verità è che non esiste una regola universale: la miglior strategia brevettuale nasce da un equilibrio tra protezione tecnica e visione d’impresa (approfondisci: Quanto costa avviare una Startup: budget, finanziamenti e supporto legale).
Il primo passo è sempre quello di mappare la propria invenzione, chiedendosi: quali sono gli elementi davvero innovativi? Quali possono avere un mercato anche al di fuori del nostro prodotto? E quali, invece, sono meri elementi funzionali, magari già noti o non abbastanza originali da giustificare una domanda di brevetto autonoma? Questa fase richiede un confronto stretto con consulenti specializzati, perché sbagliare qui significa compromettere tutta la catena del valore.
In linea di massima, una startup dovrebbe considerare di brevettare prima i componenti che costituiscono il vero “cuore” dell’innovazione. Se, ad esempio, si tratta di un algoritmo originale o di un sensore meccanico altamente innovativo, è opportuno brevettarlo separatamente. Solo dopo, eventualmente, si potrà tutelare anche l’insieme complessivo – soprattutto se l’integrazione dei moduli crea un valore tecnico ulteriore. Questo approccio consente di costruire un portafoglio coerente, evitando di auto-limitarsi fin dalla prima domanda.
Ma c’è di più: una strategia ottimale non si limita ai brevetti. Un’invenzione complessa può e spesso deve essere protetta su più fronti. Il software, se non brevettabile, pur essendo tutelato dal copyright va gestito con attenzione, attraverso il segreto e la custodia del codice sorgente (vedi anche l’articolo di M. Manca sul nuovo “paracadute” delle pmi tecnologiche: il software escrow). Il nome commerciale del prodotto può diventare un marchio registrato, mentre l’estetica di un dispositivo può essere protetta con un modello di design. Questo approccio “a rete” moltiplica le barriere all’entrata e accresce il valore patrimoniale dell’azienda (approfondisci: Valutazione Beni Immateriali).
Un portafoglio di brevetti ben costruito è una condizione imprescindibile per attrarre investimenti. I venture capitalist e i potenziali acquirenti della startup guardano prima di tutto alla solidità giuridica della tecnologia. Senza brevetti – o con brevetti vaghi, mal scritti o troppo generici – non c’è fiducia nell’investimento. I brevetti sono ciò che consente di monetizzare il valore dell’idea: difendono dalla concorrenza, legittimano il vantaggio competitivo e rappresentano un asset scambiabile, licenziabile, trasferibile. Senza proprietà intellettuale solida, la startup non è acquistabile, non è scalabile e non è difendibile. La brevettazione, quindi, non è una formalità: è una leva di crescita economica.
Infine, proteggere un’invenzione significa anche saperla difendere e farla valere. I costi legali per il monitoraggio del mercato e per eventuali azioni di contrasto alla contraffazione non sono trascurabili. Per questo, più che brevettare “tanto”, occorre brevettare bene. La qualità del brevetto conta più della quantità. E la qualità si misura in termini di chiarezza delle rivendicazioni, solidità giuridica, copertura geografica e possibilità di enforcement. Per una startup, la brevettazione non è un costo: è un investimento che apre le porte ai capitali, ai clienti e ai mercati.
Avvocato Arlo Canella