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Nel settore della proprietà intellettuale (brevetti, marchi, disegni e modelli…) il know-how rappresenta uno dei beni immateriali più aggrediti dai competitor. Proprio a causa del suo indubitabile valore concorrenziale occorre difenderlo in modo corretto. In questo contributo, pertanto, analizzeremo l’argomento con ordine:
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Con know-how intendiamo il patrimonio di informazioni, conoscenze e competenze che concorrono al buon funzionamento di un’azienda. L’espressione indica solitamente capacità di carattere tecnico-industriale, ma designa in realtà un insieme in cui sono ricomprese anche regole relative all’attività imprenditoriale, la commercializzazione dei prodotti, le tecniche di vendita e più in generale tutto ciò che attiene alla gestione dell’impresa. Nel sistema giuridico italiano, individuare una definizione univoca di know-how non è un compito agevole.
L’unico intervento del legislatore italiano si rinviene con riferimento al franchising, dove è definito come un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate, un patrimonio segreto, sostanziale ed individuato. I requisiti della segretezza e della sostanzialità si traducono nella non immediata conoscenza delle informazioni e nella loro anche minima consistenza economica. L’ultimo requisito, quello della “individuatezza”, si sostanzia invece in un’oggettivazione delle informazioni su un supporto materiale tale da permettere di verificare la sussistenza degli altri requisiti. Tale normativa rimanda al Regolamento CE n. 772/2004.
La nostra Corte di Cassazione con la sentenza n. 1699/1985 ha definito il know-how come «le conoscenze, normalmente destinate a rimanere segrete, attinenti alle tecniche industriali richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo, o per il corretto impiego di una tecnologia, ovvero le regole di condotta desunte da studi ed esperienze di gestione imprenditoriale, nel campo della tecnica mercantile e con inerenza al settore organizzativo e commerciale in senso stretto».
Insomma, il know-how è un concetto dinamico con un perimetro non facilmente individuabile.
Se il know-how non incontra una definizione chiara e univoca nel nostro ordinamento, così non è, invece, per il segreto industriale. Del resto, l’imprenditore potrebbe anche decidere (se ciò risulta possibile in relazione al tipo di know-how) di mantenere riservato il proprio saper-fare.
Ebbene, l’art. 98 del Codice della proprietà industriale disciplina i ‘segreti commerciali’, definendoli come le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore. Individua poi i requisiti affinché tali informazioni possano ricevere effettiva tutela:
La ragionevole adeguatezza di tali misure a mantenere la segretezza è valutata con riferimento ai parametri della “normale diligenza” e dello “stato dell’arte”. Quando il saper-fare è mantenuto in regime di segreto, troverà applicazione la disciplina dei segreti, appunto (artt. 98-99 CPI). Altri strumenti di tutela si ritrovano nel codice penale agli artt. 622 e 623, contro la rivelazione di segreto professionale e la rilevazione di segreti scientifici o industriali, e nel codice civile all’art. 2105 sulla tutela contro i dipendenti infedeli.
Il know-how, tuttavia, non è sempre segreto in senso tecnico. Anche il know-how non segreto può essere tutelato: vedremo come sia possibile ottenere tutela nel paragrafo 4 (Sottrazione di Know-how e Concorrenza Sleale).
Abbiamo visto che quando il know-how è mantenuto in regime di segreto, è oggetto di tutela in quanto “segreto industriale” a patto, però, che sia protetto tramite idonee misure di segretezza. Per concedere tutela al know-how segreto, la giurisprudenza individua due ordini di misure:
Quando siano previste tali misure, e sussistano inoltre le altre condizioni previste dall’art. 98 c.p.i., l’art. 99 attribuisce al detentore del know-how una tutela reale delle informazioni segrete, esercitabile nei confronti di chiunque se ne sia impadronito illecitamente. Sono escluse pertanto:
Quando tali misure non siano state messe in atto, la tutela di quelle conoscenze passerà per una diversa disciplina, quella relativa alla concorrenza sleale.
Il nostro Codice Civile prevede che gli imprenditori debbano comportarsi correttamente e senza arrecare danno agli altri imprenditori (cfr. art. 2598 CC). In quest’ottica, la disciplina della concorrenza sleale rappresenta un ulteriore punto di osservazione e di rafforzamento della tutela del know-how.
Il Tribunale di Bologna ha affrontato il caso della sottrazione e sfruttamento di una serie di informazioni tra competitor per cui non erano state adottate le misure di protezione richieste dall’art. 98 n. 3 CPI. L’attrice lamentava in giudizio la sottrazione di informazioni non previamente segretate attraverso mezzi idonei.
Non essendo invocabile la protezione garantita dagli artt. 98 e 99 per assenza del terzo dei requisiti previsti (misure di segretezza), il Collegio ha statuito che in tali circostanze è comunque configurabile la fattispecie di concorrenza sleale a condizione che <<l’utilizzo avvenga secondo modalità scorrette e che sia potenzialmente foriero di danno concorrenziale, potenziale o attuale>>.
L’art. 2598 CC (ovvero la disciplina della concorrenza sleale) interviene dunque in via complementare al sussistere, ovviamente, dei requisiti soggettivi e oggettivi da essa stessa prescritti.
Il caso della sottrazione di know-how, più di ogni altro, deve essere comunque sottoposto ad una attenta analisi. Come si è visto, infatti, è possibile reagire all’illecito altrui in vari modi (e ricorrendo a diversi istituti di protezione, sia civili sia penali).
Insomma, ogni impresa dovrebbe agire per tutelare il proprio know-how in via preventiva. Tuttavia, anche qualora si dovesse prendere coscienza del suo valore solo a seguito del furto o della sottrazione, sarebbe comunque possibile agire legalmente per ottenere la cessazione dell’illecito, il sequestro del materiale e delle informazioni indebitamente sottratte oltre al risarcimento del danno.
Maria Giulia Carlutti