Valutiamo la validità e l’equilibrio delle clausole di durata nei contratti di lavoro
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Il patto di stabilità, anche detto clausola minima di durata, è uno strumento sempre più diffuso nei contratti di lavoro, soprattutto nei contesti in cui l’azienda investe nella crescita e nella formazione del dipendente. Ma quando è legittimo vincolare un lavoratore a restare in azienda per un certo periodo (e per quanto tempo)? Cosa comporta davvero questo impegno, per entrambe le parti? In questo articolo analizziamo i profili di validità e gli effetti pratici di una delle pattuizioni più delicate del diritto del lavoro, con uno sguardo alle clausole penali, alla possibilità di recesso anticipato e ai margini di flessibilità che la legge consente.
Il patto di stabilità – anche detto clausola di durata minima garantita – è un accordo accessorio che può essere inserito nel contratto di lavoro subordinato allo scopo di vincolare le parti a mantenere il rapporto per un periodo predeterminato.
In altre parole, la clausola stabilisce un periodo minimo durante il quale il contratto non può essere risolto, oppure può esserlo solo da una delle parti.
La sua funzione principale è garantire continuità organizzativa e tutelare l’investimento del datore di lavoro, specie quando siano stati sostenuti costi significativi per formazione, inserimento o benefit strategici. Per il lavoratore, questo vincolo si traduce spesso in un’opportunità economica o professionale aggiuntiva.
Il patto può essere previsto dall’inizio del rapporto (clausola di durata minima) oppure in un momento successivo (vero e proprio patto di stabilità), purché vi sia il consenso di entrambe le parti. La forma scritta, pur non essendo richiesta a pena di nullità, è fortemente consigliata per garantire chiarezza ed evitare contestazioni.
Dal punto di vista giuridico, queste pattuizioni sono oggi pacificamente ritenute legittime: si tratta infatti di negozi normativi e non di transazioni, e rappresentano deroghe ammissibili alla disciplina del recesso prevista dall’art. 2118 c.c.
Non sono neppure qualificate come clausole vessatorie ai sensi dell’art. 1341, co. 2, c.c. (v. Cass. n. 18376/2009), purché rispettino determinati principi di validità.
Tra questi:
Sul piano pratico, il patto può assumere forma bilaterale, vincolando datore e dipendente a non recedere prima di una certa data, rafforzando così la fiducia e la percezione di equità da parte del lavoratore. In alternativa, può essere unilaterale, vincolando solo il dipendente con formule come:
“Il Dipendente si impegna a mantenere in essere il rapporto di lavoro con la Società a decorrere dal 2 giugno 2025 e fino al 31 dicembre 2026, rinunciando espressamente a recedere prima di tale termine, salvo nei casi di giusta causa e impossibilità sopravvenuta della prestazione ex artt. 2119, 1463 e 1464 c.c..”
Anche le pattuizioni unilaterali, purché rispettino i requisiti di equilibrio, proporzionalità e controprestazione, sono da ritenersi valide e meritevoli di tutela.
Uno degli elementi centrali del patto di stabilità è la possibilità di recesso anticipato, che resta ammessa solo in presenza di giusta causa o impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Secondo i criteri consolidati della giurisprudenza, si ha giusta causa quando si verifica una condotta o una circostanza tale da rendere impossibile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
A titolo esemplificativo:
Se invece il recesso avviene senza giusta causa o in mancanza dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, il patto può prevedere una clausola penale (artt. 1382 e 1384 c.c.) a carico del recedente, utile per quantificare preventivamente il danno.
La penale deve però essere calibrata con attenzione, per evitare contestazioni di natura vessatoria o sproporzionata.
In alcuni casi, la penale può essere accompagnata dalla possibilità per il datore di chiedere un ulteriore risarcimento del danno, qualora provi che il pregiudizio subito sia superiore all’importo pattuito.
Analogamente, se è il datore a recedere in assenza di giusta causa, può essere chiamato a risarcire il lavoratore, ad esempio sotto forma di retribuzioni perdute.
Resta poi ferma, in ogni caso, la facoltà del giudice di procedere alla riduzione equitativa della penale prevista dal patto, ai sensi dell’art. 1384 c.c.
In tal senso, si segnala una significativa pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sent. nr. 32680/2022. Nel caso esaminato, il patto di stabilità era stato sottoscritto da un amministratore delegato (non approvato dal consiglio di amministrazione) e risultava fortemente squilibrato a danno del datore di lavoro, sia per contenuto che per entità. La Cassazione ha ribadito che, in presenza di un patto di stabilità manifestamente sbilanciato e concluso in violazione dei principi di correttezza e buona fede, è legittima la riduzione equitativa della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c.
È bene ricordare che, come tutte le clausole contrattuali, anche il patto di stabilità può essere modificato nel tempo, purché vi sia il consenso di entrambe le parti.
È quindi possibile rinegoziare e rimodulare la durata del vincolo, l’entità della penale o la controprestazione pattuita, in funzione dell’evoluzione del rapporto e degli interessi in gioco.
D’altronde, il contratto non è uno strumento pensato per realizzare un’idea astratta di equità, ma rappresenta – per sua natura – il risultato della libera composizione di interessi ritenuti meritevoli dai contraenti.
In quest’ottica, il patto di stabilità può effettivamente rafforzare il legame fiduciario tra impresa e lavoratore, ma solo se è costruito con consapevolezza e misura.
La sua efficacia giuridica non dipende dalla forma, ma dall’equilibrio tra vincolo, durata, contenuto e prestazioni reciproche.
Per questo motivo, non basta replicare formule contrattuali standard: occorre valutare caso per caso la ragionevolezza della durata, la congruità della penale e l’adeguatezza della controprestazione.
Non esiste un vincolo “giusto” in astratto, ma solo un vincolo che le parti, consapevolmente, considerano ragionevole e meritevole.
Debora Teruggia