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La Cassazione, con l’ordinanza n. 4279 del 16 febbraio 2024, ha confermato che un ambiente lavorativo nocivo può giustificare il risarcimento dei danni anche in assenza di vero e proprio mobbing, ribadendo la responsabilità del datore di lavoro nel garantire la salute e il benessere morale dei dipendenti come previsto dall’articolo 2087 del Codice Civile.
La ricorrente ha impugnato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna che, confermando la decisione di primo grado, aveva respinto la sua richiesta di essere risarcita per i danni subiti in seguito a comportamenti vessatori asseritamente adottati nei suoi confronti dal personale del Ministero della Giustizia, dove aveva lavorato come funzionario giudiziario.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
A suo avviso, infatti, il Giudice di merito errò nel rigettare totalmente la risarcibilità del danno lamentato dalla lavoratrice. Del resto, la giurisprudenza è costante nel ritenere che, indipendentemente dalla presenza di mobbing, il datore di lavoro abbia la responsabilità di prevenire danni alla salute e al benessere morale dei suoi dipendenti, come stabilito dall’articolo 2087 del Codice Civile.
Ciò significa che l’assenza di mobbing non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificare e prevenire situazioni lavorative che potrebbero comunque nuocere alla salute dei lavoratori. È dovere del datore di lavoro adottare tutte le misure necessarie per rimuovere elementi stressanti, molestie o comportamenti ostili; in altri termini, per assicurare un ambiente di lavoro sano.
Pertanto, il datore di lavoro sarà ritenuto responsabile e dovrà risarcire i danni, se non agisce per eliminare tali situazioni nocive. In questo caso specifico, nonostante l’assenza di mobbing, è stata riconosciuta l’esistenza di un ambiente di lavoro dannoso per gli eccessivi livelli di stress, per il contenimento dei quali il datore di lavoro non aveva adeguatamente provveduto, circostanza che ha portato a ritenere configurabile un possibile risarcimento in favore della lavoratrice.
Esaminando la questione nella prospettiva dei Magistrati, l’assenza di mobbing non elimina l’onere in capo ai Giudici di esaminare se il datore di lavoro possa essere ritenuto responsabile per non aver impedito la formazione o il mantenimento di un ambiente lavorativo stressante (e che possa quindi danneggiare la salute dei dipendenti).
La Suprema Corte di conseguenza, confermando il precedente orientamento, ha confermato la possibilità di risarcimento per danni derivanti dalla violazione degli obblighi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro previsti dall’articolo 2087 del Codice Civile, anche in assenza di mobbing o straining.
Per evitare di essere ritenuto responsabile e dover quindi risarcire i danni, il datore di lavoro deve dimostrare di aver implementato tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza e l’integrità psicofisica dei propri dipendenti.
Tali misure devono essere adottate “in base all’esperienza ed alla tecnica e tenuto conto della concreta realtà aziendale e degli specifici fattori di rischio, sia pure, come è stato precisato, in relazione ad obblighi di comportamento concretamente individuati” (Cass. 30679/2019; Cass. 14066/2019; Cass. 12863/2004).
Qualora non riuscisse a dimostrare di avere fatto di tutto per mantenere il luogo di lavoro salubre, il datore potrebbe essere condannato al risarcimento del danno.
Trattandosi di responsabilità contrattuale, nel far valere la responsabilità del proprio datore di lavoro, il lavoratore dovrà indicare e provare:
Sussistendo i tre presupposti testé elencati, il datore di lavoro sarà esente da responsabilità solo se sarà in grado di dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni necessarie per prevenire il danno.
Consultare un legale esperto in diritto del lavoro in anticipo può prevenire complicazioni e consentire l’implementazione di policy personalizzate per proteggere i lavoratori sul posto di lavoro.
Il termine “mobbing” indica una serie di comportamenti aggressivi, molesti e ostracizzanti che si verificano sistematicamente nel contesto lavorativo, con l’obiettivo di isolare e danneggiare il bersaglio di tali azioni. Questa definizione evidenzia diverse caratteristiche cruciali del mobbing, tra cui la presenza di condotte vessatorie e persecutorie, l’intenzionalità di nuocere, la sistematicità e la pluralità degli atti vessatori, e il fatto che possano essere perpetrati sia dai colleghi che dal datore di lavoro.
A differenza del mobbing, lo “straining” si riferisce a situazioni di stress lavorativo estremo, causato da episodi ostili sporadici o meno frequenti, che non soddisfano i requisiti costitutivi del mobbing, ma che producono comunque effetti negativi sul lavoratore.
Il mobbing si manifesta in diverse forme, tutte potenzialmente lesive per il benessere del dipendente, tra cui l’assegnazione di carichi di lavoro eccessivi o di compiti irrealizzabili, l’umiliazione pubblica, la diffusione di falsità, le critiche continue e i comportamenti ostili persistenti.
Un aspetto particolarmente nocivo è l’isolamento professionale, che può vedere il lavoratore escluso da progetti importanti, privato degli strumenti necessari alla propria attività o relegato a compiti degradanti. Anche pratiche come il rifiuto ingiustificato di concedere ferie o benefit precedentemente garantiti rientrano nelle dinamiche del mobbing, contribuendo a creare un ambiente di lavoro tossico.
Mentre alcune forme di mobbing, come le molestie sessuali o la violenza, sono più chiaramente identificabili e punibili anche penalmente, altre pratiche possono essere più difficili da individuare e contrastare, data la sottile linea di demarcazione con le legittime prerogative di direzione, controllo e disciplina inerenti al ruolo del datore di lavoro.
Fronteggiare situazioni lavorative nocive (tra cui rientra certamente anche il mobbing) richiede azioni decise per la tutela dei propri diritti. Un approccio iniziale potrebbe essere quello di comunicare gli episodi subiti ai colleghi e ai superiori, cercando – ove possibile – supporto interno; a volte potrebbe risultare opportuno portare il problema all’attenzione del dipartimento delle risorse umane o della direzione aziendale, perché venga avviata un’indagine interna e ponendo il datore di lavoro nelle condizioni di ottemperare (ex art. 2087 cc).
Qualora le reazioni interne non dovessero risolvere la situazione, la consultazione di un avvocato specializzato in diritto del lavoro può rivelarsi essenziale al fine di valutare la sussistenza dei singoli elementi costitutivi della fattispecie illecita (pluralità di condotte vessatorie, intento lesivo/persecutorio, protrazione nel tempo) e di studiare una strategia a tutela del lavoratore.
Dato che incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’esistenza del mobbing, raccogliere prove è un compito cruciale, benché molto spesso di non facile attuazione. Mantenere un registro dettagliato degli episodi vessatori, conservare comunicazioni e documenti scritti, nonché eventuali certificati medici e testimonianze, può rivelarsi fondamentale.
Quello che è importante sottolineare ancora una volta, però, è che – alla luce dell’ordinanza qui commentata – il risarcimento potrà essere intimato anche in assenza di un vero e proprio “mobbing”, bastando dimostrare che l’ambiente lavorativo risulti stressante e nocivo per la salute e la sicurezza del lavoratore.
La decisione della Cassazione qui analizzata non solo fornisce un chiaro messaggio ai datori di lavoro sull’importanza della prevenzione e della gestione attiva della salute e sicurezza sul lavoro, ma offre ai lavoratori maggiori strumenti per la tutela dei propri diritti e contribuisce a promuovere un ambiente lavorativo più sano e giusto per tutti.
Debora Teruggia