Analizza con un esperto i rischi di plagio legati allo stile artistico.
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Come ormai noto a chiunque frequenti anche solo saltuariamente il mondo della Rete o semplicemente utilizzi uno smartphone, le intelligenze artificiali (tutte, non solo ChatGPT) hanno portato alla ribalta la possibilità tecnica di modificare le immagini, foto incluse, ispirandosi a determinati “stili” (sul concetto di stile torneremo a breve).
Che queste rielaborazioni siano lecite oppure no, almeno una volta, quasi tutti noi ci siamo imbattuti in un’immagine editata in “stile Studio Ghibli” (sicuramente fra i più gettonati), in “stile PIXAR”, in “stile pop art” e chi più ne ha più ne metta.
Ecco quindi che – anche fra gli addetti ai lavori del Diritto d’Autore – è sorto spontaneo l’interrogativo che segue (la cui risposta può ben essere influenza, inutile nascondersi dietro il proverbiale dito, dalle considerazioni etiche che ciascuno di noi ha sulla portata che dovrebbe o non dovrebbe avere il Diritto d’Autore): è lecito o non è lecito utilizzare lo stile altrui?
Per comprendere dove stia il nocciolo della questione, da un punto di vista logico non sembrerebbe una cattiva idea quella di capire in cosa consista uno “stile”.
Ebbene, in lingua italiana, per stile si intende l’“Insieme delle caratteristiche formali proprie di un’opera artistica, di un autore, di una scuola, di un’epoca” (cit. il Sabatini Coletti, ma potete consultare il dizionario che più vi aggrada); citando GARZANTI LINGUISTICA la musica non cambia: “la particolare forma in cui si concretizza l’espressione letteraria o artistica, e che è propria di un autore, di un’epoca, di un genere”; e gli esempi potrebbero continuare.
Insomma, il nozionismo fine a se stesso non ci aiuta, perché non è tanto la definizione di “stile” a costituire la chiave di volta del problema, quanto capire a cosa un determinato stile (più o meno univocamente) ci riconduca.
Riprendere lo “stile di una determinata” opera letteraria potrebbe (condizionale d’obbligo) ricondurre univocamente e inevitabilmente a una determinata opera, e quindi costituirne plagio.
D’altro canto, ispirarsi allo “stile di un autore” potrebbe forse non rilevare ai sensi della normativa sul Diritto d’Autore, ma andare comunque a collidere con le leggi a tutela del diritto di immagine e della lealtà concorrenziale.
Infine, rievocare lo “stile di una scuola” o lo “stile di un’epoca” sarà perlopiù lecito (ma, anche in questi casi, potrebbero esserci delle eccezioni: si pensi all’eventualità in cui un autore utilizzi un codice artistico così datato nel tempo da diventare – nell’epoca in cui detto autore effettivamente vive – la sua inequivocabile cifra stilistica).
Utilizzando i medesimi dizionari online già citati al paragrafo che precede, possiamo definire un’opera come il “Prodotto, frutto del lavoro artistico o intellettuale”, come “l’effetto, il risultato concreto di un’attività artistica, intellettuale, materiale”.
Ora, al netto del quesito – che alcuni potrebbero definire sofistico, ma che tale non è – volto a verificare se l’effetto, il risultato concreto di un’attività artistica, intellettuale, materiale non possa essere costituito proprio… da uno stile (quesito che buttiamo lì un po’ provocatoriamente e a cui rispondiamo con un “no” convinto fino a un certo punto) e volendo provare a semplificare l’analisi, possiamo affermare che, quando parliamo di opera, ci riferiamo a una creazione concreta: un dipinto specifico, un testo letterario con una trama e dei personaggi precisi, una composizione musicale con una melodia riconoscibile. Si tratta di un qualcosa di definito, riconoscibile e unico.
Copiare (plagiare) un’opera, quindi, non significa solo riprodurre esattamente e nella sua interezza quel contenuto, ma anche copiarne una porzione riconoscibile e, in un certo senso, rilevante (nella misura in cui ci si appropria della creatività dell’autore copiato – per approfondire, vi suggerisco senz’altro questo interessante contributo del Collega Canella).
Come si avrà avuto modo di comprendere leggendo i paragrafi che precedono, una risposta completa al quesito non potrebbe prescindere dall’accurata analisi di numerosi ambiti normativi (concorrenza sleale, diritto di immagine, meccanismi di opt-out solo per citare i primi che vengono in mente) e richiederebbe – a conti fatti – la redazione di un breve saggio.
Rimandiamo a eventuali altri contributi editoriali l’approfondimento di queste specifiche tematiche e circoscriviamo la nostra analisi, per quanto possibile, al solo Diritto d’Autore.
La legge italiana di riferimento (Legge 633/1941) – dicono in molti a gran voce – protegge le opere, non gli stili. E, in effetti, la lista di cui all’articolo 2 non parrebbe lasciare adito a dubbi: “In particolare sono comprese nella protezione:
1) le opere letterarie, drammatiche, scientifiche, didattiche, religiose, tanto se in forma scritta quanto se orale;
2) le opere e le composizioni musicali, con o senza parole, le opere drammatico-musicali e le variazioni musicali costituenti di per sé opera originale;
3) le opere coreografiche e pantomimiche, delle quali sia fissata la traccia per iscritto o altrimenti;
4) le opere della scultura, della pittura, dell’arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari, compresa la scenografia;
5) i disegni e le opere dell’architettura;
6) le opere dell’arte cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai sensi delle norme del capo quinto del titolo secondo.
7) le opere fotografiche e quelle espresse con procedimento analogo a quello della fotografia sempre che non si tratti di semplice fotografia protetta ai sensi delle norme del capo V del titolo II.
8) i programmi per elaboratore, in qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore. Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. Il termine programma comprende anche il materiale preparatorio per la progettazione del programma stesso.
9) Le banche di dati di cui al secondo comma dell’articolo 1, intese come raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo. La tutela delle banche di dati non si estende al loro contenuto e lascia impregiudicati diritti esistenti su tale contenuto.
10) Le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico.”
Cionondimeno, come diceva Michele Apicella (in Palombella rossa, 1989, regia di Nanni Moretti), “le parole sono importanti” e – secondo me non a caso – la Legge 633/1941 si intitola “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, non protezione delle opere, e nemmeno protezione delle opere degli autori o altre espressioni similari.
Al di là della facile citazione cinematografica, è proprio l’esegesi di moltissime norme di dettaglio a rivelarci come il focus della normativa si rivolga più agli autori che alle opere. Alcuni esempi per chiarire il punto:
– l’articolo 20 sancisce il diritto personalissimo dell’autore “di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione”;
– l’articolo 23 regolamenta il diritto imperituro e altrettanto personale degli “eredi” di far valere il diritto di cui all’art. 20 dopo la morte dell’autore;
– l’articolo 6 recita testualmente: “Il titolo originario dell’acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale.”:
e gli esempi occuperebbero pagine e pagine.
Viene da chiedersi se le opere non siano protette in quanto tali, ma piuttosto come strumento per proteggere gli autori.
E, se ci pensiamo,
– quando vediamo un film che ci emoziona, ma non sappiamo di chi sia la regia,
– quando un quadro ci fa brillare gli occhi, ma non conosciamo la mano che l’ha dipinto,
– quando ascoltiamo una musica che ci fa vibrare l’anima, ma non ci è noto chi l’abbia composta,
la prima domanda che ognuno di noi si pone è quasi sempre la stessa: «DI CHI È?!».
Ma quindi… la legge sul Diritto d’Autore protegge anche lo stile? No, non credo che – in generale – si possa affermare questo (almeno, io non mi sento di forzare così tanto il dato testuale della normativa).
E questo non solo e non tanto perché la creatività fiorisce nell’originalità, ma ha le sue radici nell’imitazione, non solo e non tanto perché quasi tutti i grandi artisti hanno iniziato – se non proprio copiando – ispirandosi ad altri (pittori che riproducono i maestri nei musei, scrittori che provano a imitare le frasi dei loro autori preferiti, musicisti che suonano brani di altri); quanto piuttosto perché lo spirito di emulazione è una fase fondamentale del percorso creativo, che porta a trovare la propria via nell’ambito di scuole e correnti (non solo di pensiero).
Sono assolutamente certo che nessun esperto d’Arte confonderebbe mai un’opera di Robert Delaunay con un dipinto di Robert Antoine Pinchon, ma spero che nessuno si offenda se dico che io (che sono solo un povero giurista) in alcune opere dei due ravviso una somiglianza di “stile”, e non penso solo alla “tecnica” pittorica.
Ancora: non mi vorrete dire che non ci sia una somiglianza di “stile” nelle opere di Anton Sminck van Pitloo, Giacinto Gigante e Filippo Palizzi!? D’altronde, non erano tutti esponenti di spicco della Scuola di Posillipo?
Come ormai avrete compreso, lo scrivente ha un’opinione tendenzialmente permissiva per quanto riguarda l’ispirarsi allo stile altrui, fermo restando il fatto che – a prescindere dal Diritto d’Autore – non si deve sfociare nell’illegittimo sfruttamento dell’altrui diritto di immagine e/o in atti di concorrenza sleale.
Vi sono però dei casi in cui, probabilmente, riterrei congruo applicare anche le norme della Legge 633/1941. Mi riferisco a quelle situazioni in cui un autore adotta delle soluzioni creative così personali e individualizzanti da divenire la sua inequivocabile “firma”, spesso riproposta nella totalità – o quasi – delle sue opere (in generale o anche solo di determinati periodi).
Ecco che in questi casi limite, la ripresa da parte di terzi di quella “firma” potrebbe di fatto risolversi anche nel plagio di tutte le opere (originali) che da quella “cifra stilistica” sono legittimamente caratterizzate.
Si veda il caso, per esempio, della nota pittrice Margaret D. H. Keane (celebrata nella pellicola Big Eyes di Tim Burton, del 2014, che però narra della vera e propria usurpazione autoriale subita dall’artista da parte del marito, Walter Stanley Keane): al di là della tecnica utilizzata per dipingere, se qualcuno replicasse gli enormi occhi della Keane, non troverei scandaloso gridare al plagio di (tutte le) opere dell’artista americana.
Avvocato Daniele Camaiora