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In ambito aziendale, la tutela degli interessi dell’impresa può richiedere, in alcune circostanze, il ricorso ad attività di indagine condotte da soggetti terzi. L’utilizzo di investigatori privati, se adeguatamente autorizzati e impiegati nel rispetto delle regole, rappresenta uno strumento legittimo di controllo e prevenzione. Ma quali sono i limiti, i presupposti e le cautele che il datore di lavoro deve considerare? E soprattutto: come trasformare un “mero sospetto” in un accertamento fondato, idoneo a sorreggere una contestazione disciplinare o un licenziamento?
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’investigatore privato non interviene soltanto a fronte di violazioni manifeste o situazioni già compromesse. Le indagini aziendali, quando svolte da professionisti qualificati, hanno un ruolo fondamentale anche – e soprattutto – sul piano preventivo.
Possono essere utili per individuare per tempo anomalie organizzative, abusi sistematici o comportamenti illeciti prima che generino conseguenze gravi o danni irreparabili. In quest’ottica, molte imprese – spesso con il supporto del proprio legale di fiducia o del consulente del lavoro – decidono di avviare controlli mirati anche in assenza di una formale contestazione disciplinare.
Attenzione però: l’intervento investigativo è legittimo (e davvero efficace) solo se regolato da un incarico formale e ben circoscritto. Il mandato non può essere generico, né lasciato alla libera iniziativa dell’agenzia investigativa. È necessario definire con precisione l’oggetto dell’indagine, indicando le condotte sospette da verificare, i limiti temporali, i soggetti interessati e gli elementi già a disposizione del datore.
Una recente pronuncia ha ribadito che non è sufficiente l’affidamento a un’agenzia autorizzata se le indagini vengono poi condotte da un soggetto diverso da quello indicato nel mandato. È fondamentale che l’atto di incarico specifichi chiaramente nome e cognome dell’investigatore autorizzato, oltre agli altri elementi essenziali. In tal senso si è espressa la Cassazione, con la sentenza n. 28378 dell’11 ottobre 2023, dichiarando nullo un licenziamento fondato su dati raccolti da un investigatore non legittimato.
Solo un incarico chiaro e mirato consente di garantire la proporzionalità dell’intervento e la sua successiva utilizzabilità in giudizio.
Anche la relazione investigativa, al termine dell’attività, deve essere redatta con rigore. Essa può contenere documenti, immagini, video, testimonianze. Tuttavia, non costituisce di per sé una prova pienamente utilizzabile in giudizio: si tratta di una prova atipica, la cui efficacia processuale è subordinata alla testimonianza dell’investigatore che ha svolto materialmente gli accertamenti.
Non tutte le condotte sospette legittimano l’avvio di un’indagine.
È necessario che vi siano elementi concreti a supporto del sospetto e che l’attività investigativa sia finalizzata alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante. Alcune situazioni ricorrenti nelle quali l’intervento dell’investigatore risulta non solo lecito ma spesso essenziale includono:
In tutte queste ipotesi, l’attività investigativa può fornire elementi probatori fondamentali per procedere a contestazioni fondate e tempestive.
La giurisprudenza è ormai consolidata nell’affermare che il datore di lavoro può legittimamente attivare controlli investigativi al di fuori dei locali aziendali, a condizione che siano finalizzati ad accertare comportamenti fraudolenti, infedeli o illeciti a danno della Società. Sono pienamente legittimi, ad esempio, gli accertamenti mirati a:
Non è invece consentito ricorrere all’investigatore per verificare il rendimento del dipendente o la qualità della sua prestazione, in quanto ciò integrerebbe un controllo continuativo vietato dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (oggi novellato ma ancora vincolante nei suoi principi fondamentali).
Il controllo deve avere carattere eccezionale, proporzionato e giustificato da un interesse concreto e attuale. In altre parole, l’attività investigativa non può essere avviata solo sulla base di un sospetto generico o per monitorare in modo indiscriminato i dipendenti: deve esserci un dubbio fondato, basato su comportamenti anomali, segnalazioni precise o elementi oggettivi che giustifichino l’intervento.
In molti casi, è una segnalazione interna – come quelle previste dai sistemi di Whistleblowing – a rappresentare quel presupposto concreto che legittima l’indagine, ai fini di tutelare interessi aziendali rilevanti, garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro o prevenire comportamenti lesivi dell’interesse pubblico.
La sentenza della Cassazione, sezione Lavoro, nr. 2618 del 4 febbraio 2025 ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore che, durante il congedo parentale, svolgeva un’attività imprenditoriale, né saltuaria né episodica, non dichiarata e in pieno conflitto con la ratio del congedo parentale retribuito la quale postula che durante la sua fruizione, i tempi e le energie del padre lavoratore siano dedicati, anche attraverso la propria presenza, al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore.
Grazie all’attività investigativa è stato possibile documentare lo svolgimento effettivo dell’attività, i tempi, il fatturato prodotto e la violazione degli obblighi contrattuali (in particolare, l’art. 43 del CCNL applicabile e l’art. 2105 c.c.).
Di segno opposto è l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30722 del 29 novembre 2024, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore assente per malattia (disturbo d’ansia) sorpreso a esibirsi come cantante in un piano bar. Nonostante l’attività investigativa svolta proficuamente, la Corte ha sottolineato che l’impegno in attività ricreative non costituisce di per sé un comportamento incompatibile con la patologia depressiva, anzi, può favorire la guarigione.
A conferma dell’orientamento favorevole al ricorso a investigatori privati, si segnala anche la sentenza della Cassazione, sezione Lavoro, n. 26682 del 21 settembre 2023, nella quale è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, attraverso false timbrature e condotte infedeli, aveva simulato la propria presenza in servizio. L’attività investigativa ha consentito di accertare, in modo documentato, l’effettiva assenza dal luogo di lavoro e lo svolgimento di attività incompatibili con l’orario dichiarato.
Secondo la Corte, quindi l’attività dell’investigatore è lecita, in quanto finalizzata non al controllo della prestazione lavorativa, ma alla verifica di comportamenti fraudolenti lesivi del patrimonio e dell’affidamento del datore di lavoro, con pieno rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
L’attività investigativa, se ben impostata e motivata, rappresenta uno strumento legittimo per la tutela dell’integrità aziendale. Tuttavia, proprio perché può incidere su diritti fondamentali – come la riservatezza, la libertà personale e la dignità del lavoratore – deve essere utilizzata con consapevolezza e rigore. Il coinvolgimento di professionisti abilitati, la formalizzazione puntuale dell’incarico e l’assistenza di un legale specializzato sono elementi imprescindibili per rendere l’investigazione non solo lecita, ma davvero efficace. In questo equilibrio sottile tra prevenzione e controllo si gioca, oggi più che mai, la capacità dell’impresa di difendersi senza travalicare i limiti della legalità.
Debora Teruggia