approfondimento
-
Tempo medio di lettura 6'

Codice sorgente: la software house è tenuta a consegnarlo al committente?

Pubblicato in: Proprietà Intellettuale
di Arlo Canella
Home > Codice sorgente: la software house è tenuta a consegnarlo al committente?

La decisione in esame del Tribunale di Bologna (sentenza n. 96/2020 pubbl. il 15/01/2020) affronta il tema della proprietà del codice sorgente e della sua legittima attribuzione in caso di sviluppo del software affidato a un professionista esterno o a una software house. 

In  questo articolo:

Il caso: il rifiuto di consegnare il codice sorgente

Il caso affrontato dal Tribunale di Bologna attiene il rifiuto di una Software House di consegnare al committente il codice sorgente del software commissionatole.

La società committente, un’impresa nel settore della produzione di piastrelle e ceramiche refrattarie, aveva commissionato lo sviluppo di un software per l’efficientamento delle proprie attività.

Ebbene, la committente si era vista costretta a citare in giudizio la software house, da un lato, per vedersi riconosciuta la proprietà del codice sorgente, dall’altro, per ottenere il risarcimento del danno subito a causa del rifiuto, e del conseguente ritardo, nella riconsegna del codice.

La ripartizione dei diritti sul software secondo la Legge

L’art. 12 bis della legge italiana sul diritto d’autore è collocato all’interno del capo III, sezione I, dal titolo “Protezione della utilizzazione economica dell’opera“. Quando le parti si accordano per lo sviluppo o la creazione di un’opera creativa –  tra cui rientra naturalmente anche il software originale – il diritto di sfruttamento economico appartiene al datore di lavoro o al committente. 

Infatti, quando oggetto del contratto tra committente e sviluppatore è proprio l’attività creativa, i suoi frutti non possono che appartenere a colui che ha sostenuto l’investimento economico per ottenerli.

L’art. 12 bis prevede che “Salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare del diritto esclusivo di utilizzazione economica del programma per elaboratore o della banca di dati creati dal lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro“. 

Tale principio viene applicato, in termini sostanzialmente analoghi, anche al caso del committente nell’ambito di un rapporto di collaborazione autonoma (non dipendente).

Il Jobs Act, infatti, prevede che i diritti di utilizzazione economica, in caso di apporti originali e inventivi del lavoratore autonomo, spettano a quest’ultimo “… salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata” [L. 81/2017, c.d. Jobs Act, art. 4].

Qual è la differenza tra codice sorgente e codice oggetto?

La differenza principale tra codice sorgente e codice oggetto è che il codice sorgente è scritto in un linguaggio di programmazione umanamente leggibile, il codice oggetto invece no. 

Il codice oggetto, infatti, è un codice binario compilato o tradotto dal codice sorgente, molto più veloce da eseguire, ma assai più difficile da interpretare.

Il codice sorgente, essendo stato scritto da un programmatore, può essere modificato per soddisfare eventuali requisiti o funzionalità ulteriori (anche a cura di programmatori diversi da quelli originari).

Tuttavia, quando la creazione di un software viene commissionata da un’impresa per soddisfare le sue esigenze, pare ovvio che qualora lo sviluppatore – senza un motivo valido – decida di negare l’accesso al codice sorgente alla committente, rischi di arrecarle dei danni, ma anche di essere citato per risarcirli.

A chi spetta la proprietà del codice sorgente?

Il software sviluppato per un’impresa, sulla base della normativa rilevante e dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, appartiene per Legge a quest’ultima: non ha senso distinguere tra codice sorgente o codice oggetto, perché entrambi, salvo che il contratto non disponga altrimenti, appartengono a chi ha commissionato il software, sostenendone le spese, cioè all’impresa committente.

Secondo la corte bolognese “è fuori discussione che il software è opera protetta dal diritto d’autore ed è noto che […] si distingue tra codice oggetto e codice sorgente, entrambi oggetto di tutela autoriale” [Trib. Bologna, sent. n. 96/2020]. Come già chiarito anche dalla Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, n. 13171/2016], anche il Tribunale di Bologna ha confermato che la proprietà del codice spetta “… al committente, quale conseguenza del contratto d’opera, perché il committente medesimo commissionando l’opera la acquista a titolo originario” [Trib. Bologna, sent. n. 96/2020].

Il danno organizzativo al sistema impresa per indisponibilità del codice

Nel caso esaminato [Trib. Bologna, sent. n. 96/2020], il contratto prevedeva che il committente “… sarà titolare di tutti i diritti di proprietà industriale e/o intellettuale relativi a eventuali risultati derivanti o comunque connessi allo svolgimento dei servizi“. Il Tribunale quindi ha interpretato detta clausola “in senso inclusivo di tutti i risultati dell’attività dello sviluppatore senza distinzione tra codici oggetto e codici sorgente“.

Secondo il ragionamento dei Giudici, quindi, il codice sorgente appartiene al committente in quanto risultato tipico dell’attività dello sviluppatore. 

Pertanto, “… è del tutto ragionevole che l’indisponibilità del codice sorgente per un certo tempo abbia determinato la necessità di attività manuali per l’inserimento dei dati altrimenti altrimenti acquisiti dal sistema in automatico, ovvero la necessità di intervento di tecnici informatici per risolvere in altro modo disfunzioni del sistema informatico.” Insomma, “può ritenersi ragionevolmente e presuntivamente provato che l’indisponibilità dei codici sorgente […] sia stata causa per il committente di un danno organizzativo e disfunzionale del sistema impresa“.

In altre parole, esiste una certa consequenzialità tra i disagi subiti dalla committente/titolare del software e la condotta dello sviluppatore che si è rifiutato di rendere disponibile il codice sorgente.

La mancata restituzione del codice come fatto illecito

La sentenza del Tribunale di Bologna  n. 96/2020 non sembra avere particolare impatto innovativo, ma evidenzia molto bene il tema della titolarità del codice sorgente e dei rischi correlati alla sua gestione.

Costituisce atto illecito il rifiuto ingiustificato di consegnare il codice sorgente al suo legittimo proprietario. Il Tribunale, essendo giunto ad accertare la titolarità del codice sorgente in capo al committente, ha ritenuto infatti di condannare la software house al risarcimento del danno per “fatto illecito derivante dalla mancata restituzione dei codici sorgente alla scadenza del contratto“.

In molti casi, un buon contratto può fare la differenza in ottica di contenimento dei rischi associati allo sviluppo di software.  In sua mancanza, però, occorre tenere a mente che Legge tende a favorire il committente, ossia colui che ha sopportato l’investimento economico per lo sviluppo.

Riproduzione riservata ©
Data di pubblicazione: 13 Febbraio 2023
Ultimo aggiornamento: 7 Settembre 2023
Avv. Arlo Cannela

Avvocato Arlo Canella

Managing Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano, appassionato di Branding, Comunicazione e Design.
Leggi la bio
error: Content is protected !!