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Clausole di non concorrenza: uno strumento utile da maneggiare con attenzione

Pubblicato in: Contratti
di Margherita Manca
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Chi concede il proprio marchio, know-how o altro titolo di privativa industriale attraverso un contratto di franchising o di licenza ha tutto l’interesse a tutelarsi da comportamenti concorrenziali scorretti. Le clausole di non concorrenza servono esattamente a questo. Ma non sempre sono valide. Le normative italiana e comunitaria fissano criteri precisi per stabilire se un vincolo sia legittimo o, al contrario, privo di efficacia giuridica.

In questo contributo spieghiamo quando le clausole funzionano davvero e quando, invece, diventano un’arma spuntata. Perché scrivere bene un contratto non significa solo proteggersi: significa evitare contenziosi inutili, proteggere il valore dell’impresa e mantenere in equilibrio gli interessi delle parti.

A cosa servono le clausole di non concorrenza?

Immagina di aprire un’attività commerciale usando il nome, il marchio e il metodo di una società già affermata. Ti stai probabilmente affidando a un contratto di franchising. Oppure, magari, stai ricevendo in uso un marchio o una tecnologia grazie a un contratto di licenza. In entrambi i casi, chi ti dà questi diritti vuole tutelarsi da una cosa: che tu non diventi un concorrente diretto dopo aver imparato il “mestiere”.

Per questo, nei contratti commerciali si inseriscono spesso i cosiddetti patti di non concorrenza. Sono patti che limitano la libertà di una delle parti (in genere il franchisee o il licenziatario) dal fare concorrenza diretta, sia durante la vigenza del contratto che dopo la sua fine.

La finalità è evidente: proteggere know-how, strategie commerciali e clientela, soprattutto in settori dove la condivisione di informazioni e risorse è intensa e continua.

Nel contesto del franchising, la clausola di non concorrenza tutela il franchisor dal rischio che, una volta acquisito il “sistema” (marchio, format, manuali, formazione), il franchisee se ne distacchi per replicarlo in proprio. Analogamente, nel contratto di licenza, chi concede in uso un marchio o un modello produttivo può voler evitare che il licenziatario, acquisita esperienza, diventi un competitor diretto.

Fin qui l’utilità dello strumento è evidente. Ma proprio per la sua potenziale portata limitativa della libertà contrattuale ed economica, il legislatore – sia italiano che comunitario – ha stabilito precisi criteri di validità, spesso disattesi nella prassi contrattuale.

Le clausole di non concorrenza nei contratti di franchising

Il contratto di franchising è regolato dalla Legge n. 129/2004. Si tratta di uno strumento molto usato per espandere attività commerciali senza aprire direttamente nuovi punti vendita. Chi concede il franchising (franchisor) trasmette al franchisee un pacchetto completo: marchio, assistenza, formazione, arredi, software, regole di gestione (approfondisci: Il contratto di franchising, passo dopo passo – Canella Camaiora). Comprensibile, quindi, la volontà di limitarne l’autonomia competitiva, sia durante il contratto che dopo.

Tuttavia, questa esigenza di protezione non giustifica l’imposizione di vincoli illimitati o generici. L’art. 2596 del Codice Civile stabilisce già da tempo tre condizioni chiave per la validità delle clausole di non concorrenza:

  • devono avere una durata determinata,
  • devono essere territorialmente limitate,
  • e devono riferirsi ad attività chiaramente definite e concorrenti.

A questa norma si aggiunge oggi il Regolamento UE 2022/720, in vigore dal 1 giugno 2022, che rafforza ulteriormente i limiti alle clausole post-contrattuali nei rapporti verticali come il franchising (vedi anche Il patto di non concorrenza nel franchising: validità, limiti e gestione delle controversie – Canella Camaiora). Il nuovo regolamento impone che:

  • la durata della clausola post-contrattuale non possa superare i 12 mesi;
  • il divieto sia indispensabile alla protezione del know-how trasferito;
  • e la clausola si applichi solo nei locali o nel territorio in cui il franchisee ha effettivamente operato.

Una clausola che impone, ad esempio, un divieto di non concorrenza per 2 o 3 anni dopo la cessazione del contratto – anche se le parti la hanno firmata – sarà riportata entro i limiti normativamente previsti.

Le clausole di non concorrenza nei contratti di licenza: stessa logica, ma qualche differenza

Anche nei contratti di licenza, in particolare di marchio o di know-how, può comparire una clausola di non concorrenza (approfondisci Il contratto di licenza o licensing – Canella Camaiora). In questo caso, chi concede in uso un diritto (come un marchio registrato o una formula industriale) vuole evitare che il licenziatario lo sfrutti per poi diventare un diretto concorrente.

A differenza del franchising, il contratto di licenza non prevede necessariamente un rapporto continuativo o un pacchetto completo. Tuttavia, i rischi sono simili: chi riceve il diritto di usare un marchio o una tecnologia può imparare molto e poi usarlo in proprio. Ecco perché anche qui le clausole di non concorrenza sono frequenti.

I principi di validità di tale clausola sono molto simili:

  • la durata deve essere ragionevole (in ogni caso, non possono essere previsti più di 5 anni);
  • l’ambito geografico deve essere coerente con il mercato di riferimento;
  • l’attività vietata deve essere ben definita e direttamente collegata al contenuto della licenza.

C’è però una maggiore attenzione agli aspetti concorrenziali e antitrust: una clausola che vieta al licenziatario qualsiasi attività, anche lontana o non collegata, potrebbe ostacolare la concorrenza in modo illegittimo. In questi casi, oltre al Codice Civile, entrano in gioco anche le norme comunitarie sulla concorrenza, che proteggono il mercato da pratiche restrittive.

Scrivere bene una clausola di non concorrenza è (ancora) un atto di strategia

Ma cosa succede se la clausola è troppo ampia, troppo lunga o troppo vaga? La risposta è semplice: è nulla oppure sarà riportata entro i limiti consentiti dalla legge.

Ecco alcuni esempi di clausole scorrette, secondo vari casi affrontati dalla giurisprudenza italiana:

  • clausole che vietano qualsiasi attività “simile o affine”, senza indicare in modo chiaro i settori esclusi;
  • divieti estesi a tutto il territorio europeo senza una valida giustificazione;
  • durate post-contrattuali superiori ai limiti consentiti dalla Legge.

In conclusione, le clausole di non concorrenza sono strumenti utili, spesso fondamentali, per proteggere l’investimento in un contratto di franchising o licenza. Ma devono essere costruite con cura, nel rispetto dei limiti fissati dalla legge.

Una clausola troppo restrittiva non protegge, ma espone il contratto a dei rischi. Allo stesso tempo, una clausola troppo debole può non bastare a difendere davvero il know-how e il valore dell’attività.

Il problema non è inserire o meno la clausola, ma farlo nel modo giusto. Perché una previsione sbagliata non solo non protegge, ma rischia di invalidare l’intero equilibrio contrattuale.

© Canella Camaiora Sta. Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 5 Maggio 2025

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Margherita Manca

Avvocato presso lo Studio Legale Canella Camaiora, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano, si occupa di diritto industriale
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