La protezione contrattuale richiede equilibrio tra interessi e vincoli.
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Chi concede il proprio marchio, know-how o altro titolo di privativa industriale attraverso un contratto di franchising o di licenza ha tutto l’interesse a tutelarsi da comportamenti concorrenziali scorretti. Le clausole di non concorrenza servono esattamente a questo. Ma non sempre sono valide. Le normative italiana e comunitaria fissano criteri precisi per stabilire se un vincolo sia legittimo o, al contrario, privo di efficacia giuridica.
In questo contributo spieghiamo quando le clausole funzionano davvero e quando, invece, diventano un’arma spuntata. Perché scrivere bene un contratto non significa solo proteggersi: significa evitare contenziosi inutili, proteggere il valore dell’impresa e mantenere in equilibrio gli interessi delle parti.
Immagina di aprire un’attività commerciale usando il nome, il marchio e il metodo di una società già affermata. Ti stai probabilmente affidando a un contratto di franchising. Oppure, magari, stai ricevendo in uso un marchio o una tecnologia grazie a un contratto di licenza. In entrambi i casi, chi ti dà questi diritti vuole tutelarsi da una cosa: che tu non diventi un concorrente diretto dopo aver imparato il “mestiere”.
Per questo, nei contratti commerciali si inseriscono spesso i cosiddetti patti di non concorrenza. Sono patti che limitano la libertà di una delle parti (in genere il franchisee o il licenziatario) dal fare concorrenza diretta, sia durante la vigenza del contratto che dopo la sua fine.
La finalità è evidente: proteggere know-how, strategie commerciali e clientela, soprattutto in settori dove la condivisione di informazioni e risorse è intensa e continua.
Nel contesto del franchising, la clausola di non concorrenza tutela il franchisor dal rischio che, una volta acquisito il “sistema” (marchio, format, manuali, formazione), il franchisee se ne distacchi per replicarlo in proprio. Analogamente, nel contratto di licenza, chi concede in uso un marchio o un modello produttivo può voler evitare che il licenziatario, acquisita esperienza, diventi un competitor diretto.
Fin qui l’utilità dello strumento è evidente. Ma proprio per la sua potenziale portata limitativa della libertà contrattuale ed economica, il legislatore – sia italiano che comunitario – ha stabilito precisi criteri di validità, spesso disattesi nella prassi contrattuale.
Il contratto di franchising è regolato dalla Legge n. 129/2004. Si tratta di uno strumento molto usato per espandere attività commerciali senza aprire direttamente nuovi punti vendita. Chi concede il franchising (franchisor) trasmette al franchisee un pacchetto completo: marchio, assistenza, formazione, arredi, software, regole di gestione (approfondisci: Il contratto di franchising, passo dopo passo – Canella Camaiora). Comprensibile, quindi, la volontà di limitarne l’autonomia competitiva, sia durante il contratto che dopo.
Tuttavia, questa esigenza di protezione non giustifica l’imposizione di vincoli illimitati o generici. L’art. 2596 del Codice Civile stabilisce già da tempo tre condizioni chiave per la validità delle clausole di non concorrenza:
A questa norma si aggiunge oggi il Regolamento UE 2022/720, in vigore dal 1 giugno 2022, che rafforza ulteriormente i limiti alle clausole post-contrattuali nei rapporti verticali come il franchising (vedi anche Il patto di non concorrenza nel franchising: validità, limiti e gestione delle controversie – Canella Camaiora). Il nuovo regolamento impone che:
Una clausola che impone, ad esempio, un divieto di non concorrenza per 2 o 3 anni dopo la cessazione del contratto – anche se le parti la hanno firmata – sarà riportata entro i limiti normativamente previsti.
Anche nei contratti di licenza, in particolare di marchio o di know-how, può comparire una clausola di non concorrenza (approfondisci Il contratto di licenza o licensing – Canella Camaiora). In questo caso, chi concede in uso un diritto (come un marchio registrato o una formula industriale) vuole evitare che il licenziatario lo sfrutti per poi diventare un diretto concorrente.
A differenza del franchising, il contratto di licenza non prevede necessariamente un rapporto continuativo o un pacchetto completo. Tuttavia, i rischi sono simili: chi riceve il diritto di usare un marchio o una tecnologia può imparare molto e poi usarlo in proprio. Ecco perché anche qui le clausole di non concorrenza sono frequenti.
I principi di validità di tale clausola sono molto simili:
C’è però una maggiore attenzione agli aspetti concorrenziali e antitrust: una clausola che vieta al licenziatario qualsiasi attività, anche lontana o non collegata, potrebbe ostacolare la concorrenza in modo illegittimo. In questi casi, oltre al Codice Civile, entrano in gioco anche le norme comunitarie sulla concorrenza, che proteggono il mercato da pratiche restrittive.
Ma cosa succede se la clausola è troppo ampia, troppo lunga o troppo vaga? La risposta è semplice: è nulla oppure sarà riportata entro i limiti consentiti dalla legge.
Ecco alcuni esempi di clausole scorrette, secondo vari casi affrontati dalla giurisprudenza italiana:
In conclusione, le clausole di non concorrenza sono strumenti utili, spesso fondamentali, per proteggere l’investimento in un contratto di franchising o licenza. Ma devono essere costruite con cura, nel rispetto dei limiti fissati dalla legge.
Una clausola troppo restrittiva non protegge, ma espone il contratto a dei rischi. Allo stesso tempo, una clausola troppo debole può non bastare a difendere davvero il know-how e il valore dell’attività.
Margherita Manca