Evita sanzioni e contenziosi con etichette conformi alle norme UE.
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Che cosa hanno in comune un cucchiaio di “burro” di mandorle, una “salsiccia” vegetale e una farina arricchita con ingredienti extra? Ognuno di questi termini, per quanto familiare, può innescare dibattiti legali, trasformare la percezione di un prodotto e orientare le preferenze d’acquisto dei consumatori. In un mercato sempre più ricco di innovazioni, dalla carne coltivata alle alternative plant-based, scegliere le parole giuste significa costruire fiducia, guidare il cambiamento e contribuire a plasmare il futuro dell’alimentazione. In questo articolo scopriremo in che modo la terminologia alimentare, tanto sottovalutata quanto potente, possa influenzare l’innovazione, la concorrenza e perfino le nostre scelte quotidiane.
Nel settore alimentare, le parole non sono mai innocue. Ogni termine utilizzato in etichetta può plasmare la percezione del consumatore, modificare comportamenti d’acquisto e perfino generare controversie legali. In un mercato in cui l’innovazione corre veloce – dalla carne coltivata alle alternative vegetali – la scelta della terminologia diventa una leva competitiva cruciale, capace di influenzare l’intero ciclo di vita di un prodotto.
Parole come “naturale”, “artigianale” o “tradizionale” evocano qualità percepite positivamente, anche in assenza di riscontri oggettivi. Il potere evocativo del linguaggio può condurre i consumatori a preferire un prodotto rispetto a un altro, semplicemente per l’immagine mentale che una parola suggerisce. La questione non è solo comunicativa, ma anche commerciale e giuridica.
Un caso esemplare è quello tra Unilever e Hampton Creek, relativo al prodotto “Just Mayo”: un’alternativa alla maionese priva di uova. Unilever, produttrice della Hellmann’s, contestava l’uso del termine “mayo”, ritenendolo fuorviante per i consumatori. Sebbene l’azione legale sia stata ritirata dopo un acceso dibattito pubblico, l’episodio ha dimostrato quanto una parola possa compromettere la reputazione e le vendite di marchi consolidati, oppure rafforzare l’identità di nuovi entranti sul mercato.
La terminologia, quindi, non è un orpello stilistico: rappresenta un nodo strategico dove si incrociano responsabilità legali, aspettative del consumatore e posizionamento commerciale. L’uso improprio di un termine può esporre le aziende a rischi reputazionali e contenziosi, mentre una comunicazione trasparente e coerente rafforza la fiducia del cliente e consolida la credibilità del brand.
Il lessico alimentare, insomma, può creare valore oppure distruggerlo. Ma cosa succede quando è la legge a stabilire quali parole possiamo (o non possiamo) usare per descrivere un alimento?
Nel mercato alimentare europeo, le parole non sono solo marketing: sono legge. Le denominazioni utilizzate in etichetta devono rispettare norme precise, pensate per tutelare il consumatore e garantire trasparenza. Ma nonostante l’apparente rigidità del sistema, le lacune interpretative e l’evoluzione tecnologica rendono il quadro giuridico complesso e spesso oggetto di dibattito.
In Italia, ad esempio, il D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187 stabilisce che solo il prodotto ottenuto dalla macinazione del grano tenero può chiamarsi “farina”. Qualsiasi miscela con altri ingredienti deve essere etichettata come “preparato” (art. 6). Allo stesso modo, il Regolamento (UE) n. 1308/2013 riserva il termine “latte” esclusivamente al prodotto di secrezione mammaria, senza aggiunte né sottrazioni (si veda la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, causa C-422/16 – TofuTown, 2017).
Prodotti a base vegetale – come bevande di mandorla, soia o riso – non possono essere etichettati come “latte”, né usare denominazioni come “formaggio”, “burro” o “yogurt”, pena la violazione delle norme europee sulle denominazioni protette. La chiarezza semantica è considerata essenziale per evitare confusione nel consumatore.
Il quadro si complica nel caso del cosiddetto “meat sounding”, ovvero l’uso di termini come “salsiccia vegetale” o “burger di soia”. A oggi, non esiste un divieto armonizzato a livello UE: mentre alcuni Stati membri hanno tentato restrizioni (poi contestate), l’Unione non vieta tali denominazioni finché non ingenerano equivoci. Questo margine di discrezionalità crea incertezze regolatorie e lascia spazio a conflitti tra aziende e autorità nazionali.
La situazione si fa ancora più articolata con i novel food, come la carne coltivata. Il Regolamento (UE) 2015/2283 impone procedure autorizzative complesse e un’etichettatura rigorosa, a tutela della salute pubblica e della corretta informazione (si veda anche il nostro approfondimento: Dal HACCP alla carne coltivata: come l’UE regola la sicurezza alimentare).
Anche la FAO e l’OMS nel recente rapporto Food safety aspects of cell-based food (2023), sottolineano l’urgenza di terminologie trasparenti, evitando espressioni ambigue che possano fuorviare i consumatori.
Tuttavia, nonostante le molte normative vigenti, tra cui il Regolamento (UE) n. 1169/2011 sull’etichettatura, la Corte dei Conti europea ha evidenziato come permangano lacune significative, soprattutto alla luce delle nuove pratiche commerciali e delle tecnologie emergenti. Serve quindi un aggiornamento normativo capace di semplificare, uniformare e rendere più efficace il sistema.
Ma se la legge fatica a stare al passo con l’innovazione, cosa succede nel nostro cervello quando ci troviamo davanti a un’etichetta “vegetale”, “coltivata” o “alternativa”?
Mangiare non è mai solo nutrirsi: è un atto identitario, emotivo e culturale. Le nostre scelte alimentari sono guidate da processi psicologici complessi, che agiscono spesso in modo inconsapevole. Un esempio emblematico è il cosiddetto “paradosso della carne”, un fenomeno di dissonanza cognitiva descritto da Loughnan, Haslam e Bastian nel 2010: chi ama e rispetta gli animali ma consuma carne tende a provare disagio, e adotta strategie mentali per ridurre il conflitto interiore (The role of meat consumption in the denial of moral status and mind to meat animals – Appetite. 2010 Aug;55(1):156-9).
Tra queste strategie, troviamo la ricategorizzazione degli animali: quelli da compagnia sono visti come intelligenti e sensibili, quelli da allevamento come inferiori. Un’altra è la dissociazione: si evita di pensare che la carne provenga da un essere vivente, anche grazie a forme alimentari anonime come burger o salsicce che non richiamano l’animale originario.
La minimizzazione delle capacità cognitive degli animali da allevamento è un’altra tecnica di giustificazione diffusa. Studi mostrano che i consumatori attribuiscono meno intelligenza e sensibilità agli animali che mangiano, riducendo così il senso di colpa.
A rafforzare queste dinamiche, intervengono le norme sociali e culturali. La psicologa Melanie Joy (Melanie Joy – Wikipedia) ha introdotto il concetto di carnismo, ovvero l’ideologia invisibile secondo cui mangiare carne è normale, naturale e necessario. Questa visione è talmente interiorizzata che molti non si accorgono nemmeno di subirne l’influenza.
Un altro ostacolo all’adozione di innovazioni alimentari, come la carne coltivata, è il cosiddetto “yuck factor”, ovvero la ripugnanza istintiva verso ciò che appare innaturale o artificiale. Le persone con alta sensibilità al disgusto alimentare tendono a rifiutare cibi derivati da tecnologie avanzate, anche se sicuri (Bryant, 2019; Pakseresht et al., 2022).
Eppure, le alternative come la carne coltivata offrono vantaggi ambientali, sanitari ed etici. Studi di Life Cycle Assessment dimostrano che possono ridurre l’impatto ambientale rispetto agli allevamenti intensivi, soprattutto se prodotte con energie rinnovabili (Correction: Ex-ante life cycle assessment of commercial-scale cultivated meat production in 2030). Inoltre, la produzione in ambienti sterili riduce il rischio di contaminazioni e la necessità di antibiotici.
Tutto però dipende da come il prodotto viene raccontato. Una comunicazione troppo tecnica o scientifica rischia di aumentare il senso di “innaturalità”. Al contrario, enfatizzare la continuità con la carne tradizionale e la trasparenza del processo può ridurre il disgusto e aumentare l’accettazione.
Ma cosa accade quando la comunicazione alimentare non è libera di raccontarsi? Cosa succede quando la legge impone di tacere certe parole?
Nel mondo alimentare, una parola può valere milioni. La terminologia adottata per descrivere un prodotto non incide solo sull’immaginario del consumatore, ma determina anche l’andamento economico di interi comparti. Una denominazione efficace può accelerare l’accettazione di un’innovazione, attrarre investimenti e determinare la riuscita commerciale di un nuovo alimento.
Al contrario, un termine inappropriato o percepito negativamente può bloccarne la diffusione, scoraggiando aziende e investitori.
Un esempio noto è quello dell’Italian Sounding (Italian Sounding – Wikipedia), una strategia che sfrutta nomi, colori e simboli italiani per vendere prodotti non autentici. Si stima che questo fenomeno causi oltre 55 miliardi di euro di danni all’economia italiana, sottraendo mercato alle imprese che realmente producono secondo standard Made in Italy. Una semplice parola, come “Parmesan” invece di “Parmigiano Reggiano”, può trarre in inganno il consumatore e deviare l’acquisto.
Anche la dicitura “carne coltivata” vs “carne sintetica” ha un impatto diretto sull’accettazione pubblica. Mentre la prima suggerisce un’origine controllata e innovativa, la seconda evoca immagini di artificialità e laboratorio. Le parole influenzano la fiducia, e quindi anche i flussi finanziari verso ricerca, produzione e marketing.
Le normative restrittive sulla terminologia, come il divieto di usare parole tradizionali per prodotti vegetali, possono limitare la competitività delle imprese più innovative. Costringerle a ricorrere a descrizioni poco familiari significa rendere i prodotti meno attraenti e più difficili da comunicare, penalizzandone la penetrazione sul mercato.
Allo stesso tempo, la chiarezza normativa è fondamentale per attrarre investimenti. Gli investitori cercano mercati stabili e prevedibili, in cui sia chiaro cosa è lecito dire e vendere. Una terminologia definita e coerente rende più sicuro l’ingresso in nuovi mercati e stimola lo sviluppo di filiere alternative.
A livello internazionale, USA, UE, Germania e Regno Unito stanno puntando su bioeconomia e proteine alternative, con ingenti investimenti pubblici e privati (Food for Thought: The Protein Transformation | BCG). La comunicazione gioca un ruolo determinante: descrivere bene i benefici ambientali, sanitari ed etici di un alimento può orientare le politiche pubbliche, attrarre fondi e incentivare l’adozione di nuove soluzioni.
Secondo il Foodservice Market Monitor di Deloitte, i consumatori globali sono sempre più orientati verso prodotti sostenibili e plant-based. E in questo scenario, le parole diventano strumenti decisivi per costruire valore, orientare la domanda e delineare il futuro del settore.
Perché alla fine, non è solo questione di cosa mangiamo, ma di come lo raccontiamo. E in un’etichetta, ogni parola può segnare la differenza tra successo e fallimento, tra mercato e marginalità, tra accettazione e rifiuto.