Per il matrimonio l’art. 143bis del codice civile prevede che la moglie debba aggiungere il cognome del marito al proprio cognome. Tale obbligo che non è mai stato modificato negli anni, nemmeno in occasione della riforma del diritto di famiglia del ’75.
La giurisprudenza negli anni ha ridimensionato tale obbligo (es. Cassazione n. 1692 del 13 luglio 1961, che lo ha considerato mera facoltà della moglie). Da un punto di vista burocratico il Consiglio di Stato, con parere n. 1746/97 del 10 dicembre 1997, ha chiarito che “ai fini dell’identificazione della persona vale esclusivamente il cognome da nubile”.
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Il “decreto ponte” della Legge Cirinnà ha ingiustamente ignorato la prassi consolidata in relazione al matrimonio. Infatti, in base al dettato dell’art. 4 comma 2, al cambio di cognome di uno dei due partner, nonché all’aggiunta del cognome del partner al proprio, corrisponde l’obbligo per gli uffici competenti di procedere con l’annotazione nell’atto di nascita e con l’aggiornamento della scheda anagrafica della persona.
Aggiornamento che – almeno in astratto – dovrebbe comportare la modifica delle informazioni alla base delle quali viene calcolato il codice fiscale, che dovrà quindi essere aggiornato, e con esso i dati sul passaporto, sulla carta d’identità.
Insomma, un vero e proprio “cambio di identità” del partner che decida di assumere il cognome di famiglia. Sono evidenti anche le conseguenze anche in relazione alla registrazione nelle banche dati pubbliche che identificano i soggetti per mezzo del codice fiscale (es. INPS).
Una svista, o l’ennesimo codicillo che rende molto più complesso per le coppie dello stesso sesso coronare il sogno di essere riconosciute come una famiglia?
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Avvocato Paola Pellini