Consulenza per la tutela di design e opere creative in Europa.
Calcola il preventivo
La sedia DSW, creata dai celebri designer Charles e Ray Eames, è un’icona senza tempo del design moderno che continua a sollevare questioni giuridiche di grande rilevanza nell’area della proprietà intellettuale. Questo articolo ripercorre il cammino della DSW fino alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nella Causa C‑227/23), dove verrà definita l’effettiva portata della sua tutela nel mercato europeo. Al centro della controversia, la protezione dei diritti d’autore per le opere di design e il principio di reciprocità sancito dalla Convenzione di Berna sollevano interrogativi sulla tutela delle creazioni estere in Europa. Attraverso una ricostruzione dettagliata dei tentativi di Vitra di proteggere il modello DSW e delle battaglie legali precedenti, l’articolo analizza le sfide legate alla frammentazione normativa europea nella tutela del design, ponendo in rilievo i limiti e le opportunità che il sistema giuridico europeo offre per la tutela del design industriale.
La Dining Sidechair Wood (DSW), progettata dai designer americani Charles e Ray Eames, è diventata un’icona senza tempo del design moderno. Creata originariamente per un concorso di progettazione di mobili indetto dal Museum of Modern Art di New York (International Competition for Low-Cost Furniture Design del 1948), questa sedia ebbe un forte impatto sull’arredamento del dopoguerra grazie all’uso pionieristico della plastica sagomata, una novità assoluta per l’epoca, accoppiata a gambe in legno e metallo che conferivano alla struttura stabile e un’estetica immediatamente riconoscibile.
La DSW non era solo bella, ma anche funzionale e versatile, qualità che le hanno assicurato una fama internazionale e un posto nelle collezioni permanenti di musei come il MoMA. Oltre a essere uno dei prodotti più amati del design del XX secolo, è anche uno dei più imitati, con innumerevoli versioni che ne replicano o reinterpretano la forma in tutto il mondo.
Attualmente, Vitra Collections AG detiene i diritti di sfruttamento europeo di molti iconici progetti di Charles e Ray Eames, tra cui la sedia DSW, e ha concesso sub-licenze esclusive per la distribuzione nella UE. Dal gennaio 2024, le scocche delle Eames Plastic Chairs prodotte da Vitra sono realizzate in plastica riciclata post-consumo, una linea nota come Eames Plastic Chairs RE (per approfondire, visita Vitra.com; vedi anche Eames Plastic Side Chair RE DSW).
Negli anni, Vitra ha cercato di proteggere la riconoscibilità del prodotto, ad esempio, puntando a registrare la base della sedia come marchio tridimensionale presso l’EUIPO (Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale). Questo tentativo è stato, però, respinto dall’Ufficio con la motivazione che la forma in questione non avesse abbastanza distintività per consentire al prodotto di essere riconosciuto in modo univoco sul mercato. Questa decisione, adottata dall’EUIPO il 20 maggio 2015, ha confermato le difficoltà di ottenere una protezione più rigorosa per design storici che, pur essendo iconici, non sono considerati abbastanza “unici” sul piano commerciale. Decisione, a mio avviso, più che discutibile (per approfondire il tema del marchio di forma si v. Perché scegliere un “marchio di forma” e come tutelarlo – Canella Camaiora).
Anche in Italia, i tentativi di proteggere la sedia DSW si sono rivelati complessi per Vitra. In una causa contro una società italiana, il Tribunale di Milano ha dichiarato, anche per carenza di prove oggettive, che la sedia in questione non possedesse il “valore artistico” necessario per ottenere la tutela come opera protetta da diritto d’autore, requisito previsto dall’articolo 2, comma 10, della legge sul diritto d’autore italiana (L. 633/41).
Nonostante ciò, il tribunale ha riconosciuto a Vitra il diritto di agire per concorrenza sleale contro imitazioni servili della DSW. Secondo la corte, riproduzioni identiche del prodotto violerebbero infatti le norme sulla lealtà commerciale (cfr. Trib. Milano Sez. spec. propr. industr. ed intell., 02/08/2012 – Vitra Patente AG e altri c. High Tech Srl). Vale la pena di ricordare, però, come la corte meneghina si sia invece spesa accordando l’artisticità a un’altra opera dei coniugi Eames, ossia la “Lounge Chair & Ottoman” (progettata per Billy Wilder e donata al regista, amico intimo degli Eames.
Torniamo però alla DSW che oggi è diventata così popolare che non è difficile trovarla anche in contesti inaspettati. Per esempio, McDonald’s ha integrato versioni della sedia DSW in molti dei suoi ristoranti come parte di una strategia di rebranding che puntava a offrire ai clienti un’esperienza più moderna, chic e rilassata (la DSW è presente in molte sedi rinnovate dal 2015 in poi, da New York a Hong Kong).
Tornando però al cuore della questione: come mai la DSW è recentemente finita al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione Europea?
Come abbiamo visto, Vitra Collections AG risulta titolare in Europa dei diritti sui progetti dei coniugi Eames. Avendo scoperto (ahinoi, nel lontano 2014) che Kwantum, una nota catena di arredamento nei Paesi Bassi e in Belgio, stava vendendo una sedia molto simile alla DSW, denominata “Paris”, aveva deciso di farle causa. Per Vitra, trattandosi di una copia quasi identica della celebre DSW, l’imitazione avrebbe ingiustamente sfruttato la fama del modello originale, inducendo in errore i consumatori. Per questo motivo aveva avviato una causa.
In primo grado, il Tribunale dell’Aia ha preso una posizione inaspettata, stabilendo che la vendita della sedia Paris non costituiva una violazione dei diritti d’autore di Vitra. Secondo i giudici, nonostante le somiglianze tra le due sedie, la DSW non poteva vantare una protezione sufficiente in Europa come opera dell’ingegno: la sua origine americana e la sua destinazione d’uso commerciale ne avrebbero infatti limitato il valore artistico riconoscibile in forza del diritto d’autore europeo. Una decisione che sembrava risolvere la controversia in favore della Kwantum, ma che ha avuto vita breve.
Vitra, infatti, ha presentato appello e, questa volta, i giudici della Corte d’appello dell’Aia hanno rovesciato la sentenza di primo grado: a loro avviso, la commercializzazione della sedia Paris rappresentava una chiara violazione dei diritti di Vitra sulla DSW. La Corte ha ritenuto che, anche se la DSW fosse stata originariamente concepita e protetta come opera d’arte applicata negli Stati Uniti, questa potesse comunque essere tutelata dal diritto d’autore anche in Europa, indipendentemente dalla sua origine.
Tuttavia, dinanzi a questa divergenza di opinioni giuridiche, la questione è arrivata alla Corte Suprema dei Paesi Bassi. I giudici olandesi si sono trovati di fronte a un dilemma che andava ben oltre la sedia DSW e il suo specifico diritto d’autore: fino a che punto è possibile tutelare in Europa un’opera concepita in un Paese extraeuropeo, come gli Stati Uniti? Del resto, sia la DSW sia i coniugi Eames sono americani.
Per rispondere a questa domanda, occorre analizzare il concetto di “reciprocità sostanziale” sancito dalla Convenzione di Berna del 1886.
Per fare chiarezza, la Corte Suprema olandese ha sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea una serie di questioni pregiudiziali (Causa C‑227/23). Tra queste, il quesito principale riguarda proprio l’applicazione del principio di reciprocità: gli Stati membri dell’UE possono applicare questo criterio per limitare i diritti d’autore su un’opera d’arte applicata all’industria che proviene da un Paese terzo, come gli Stati Uniti? Oppure, spetta alla legislazione europea garantire una tutela uniforme anche per le opere non comunitarie, o i singoli Stati possono decidere autonomamente?
La domanda sottoposta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella Causa C‑227/23 è quanto mai complessa: se un’opera di design di un Paese extra-UE, come gli Stati Uniti, debba ricevere tutela nei Paesi europei, e se sì, in che misura.
Al centro della questione vi è il principio di reciprocità sostanziale, previsto dall’articolo 2, paragrafo 7, della Convenzione di Berna. Questo principio consente agli Stati di limitare i diritti d’autore per opere provenienti da Paesi terzi, come gli Stati Uniti, in base alla tutela che questi ultimi concedono a loro volta alle opere europee.
Tuttavia, l’applicazione di tale principio deve confrontarsi con le norme europee, che mirano a garantire una protezione uniforme del diritto d’autore in tutta l’Unione. Nella Direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione dei diritti d’autore, non vi era alcuna previsione atta discriminare la tutela in base alla nazionalità dell’autore o al Paese di origine dell’opera: tutti i titolari di opere protette, che siano europei o stranieri, avrebbero dovuto beneficiare dei medesimi diritti esclusivi di riproduzione, distribuzione e comunicazione al pubblico (articoli 2, 3 e 4 della direttiva).
La Corte di Giustizia ha ribadito che, una volta che l’Unione ha stabilito i principi di tale armonizzazione, i singoli Stati membri non possono apportare limitazioni ulteriori o derogarvi. Poiché il principio limitativo della reciprocità sostanziale di cui alla Convenzione di Berna, non viene menzionato dalla direttiva, tale principio non può essere utilizzato come “scusa” per non proteggere il design estero.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, all’articolo 17, riconosce la proprietà intellettuale come diritto fondamentale, elevando il diritto d’autore a una posizione di rilievo. L’articolo 52 della Carta, inoltre, stabilisce che qualsiasi limitazione ai diritti fondamentali deve essere proporzionata, chiara e stabilita dalla legge. In questo contesto, la Corte ha sottolineato che eventuali deroghe alla protezione del diritto d’autore non possono essere introdotte arbitrariamente dai singoli Stati membri, ma devono essere previste dal legislatore europeo. L’obiettivo è evitare che i diritti fondamentali subiscano limitazioni variabili e non uniformi tra i diversi Stati dell’Unione.
L’articolo 351 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) stabilisce che gli obblighi assunti dai Paesi membri verso terzi prima dell’adesione all’UE, come la Convenzione di Berna, possano in alcuni casi prevalere sul diritto dell’Unione. Tuttavia, la Corte ha chiarito che tale deroga si applica solo se la norma internazionale obbliga espressamente gli Stati a imporre una restrizione, come nel caso del criterio di reciprocità sostanziale. Poiché la Convenzione di Berna non obbliga all’applicazione della reciprocità, gli Stati membri non possono usarla come base per limitare la tutela di opere extra-europee: essi devono conformarsi al diritto dell’Unione, che richiede una protezione uniforme.
Alla luce di queste disposizioni, la Corte di Giustizia ha concluso che il diritto dell’Unione prevale e impone una tutela coerente per il design proveniente da Paesi terzi come gli Stati Uniti. La direttiva 2001/29/CE, insieme ai principi della Carta dei Diritti Fondamentali, non consente ai singoli Stati membri di applicare il criterio di reciprocità sostanziale. Una sedia americana come la DSW degli Eames, dunque, non può essere privata della protezione europea per il semplice fatto di non provenire da un Paese dell’Unione.
In questo modo, la CGUE ha tracciato una linea netta, ribadendo che i diritti d’autore e la tutela delle opere di design devono rispettare i principi uniformi stabiliti dal diritto dell’Unione, evitando differenze di trattamento tra opere europee e internazionali.
Eppure queste differenze, soprattutto in materia di design, all’interno dell’unione ci sono eccome.
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che ha respinto la tesi della reciprocità per la tutela del design estero, sembra giustamente tesa a garantire in via prioritaria l’armonizzazione dei diritti d’autore in Europa. Tuttavia, questo intervento della Corte aggiunge un ulteriore livello di complessità: la reciprocità, pur essendo prevista dalla Convenzione di Berna, è ora ufficialmente esclusa. Gli Stati membri non possono più stabilire autonomamente se garantire o meno tutela ai design extraeuropei secondo il criterio della “reciprocità sostanziale” tra paesi. Questo obiettivo di uniformità europea, benché auspicabile, lascia però irrisolte le problematiche di frammentazione normativa che persistono tra le legislazioni nazionali.
Anche senza il criterio della reciprocità, le differenze fra ordinamenti europei permangono. In molti Stati dell’UE, Italia inclusa, il design industriale può essere protetto dal diritto d’autore solo se viene riconosciuto un valore artistico (cfr. L’Industrial Design è tutelabile dal diritto d’autore? – Canella Camaiora). Questa particolarità aggiunge un ulteriore filtro rispetto alla mera creatività, rendendo più complesso il processo di tutela per il design industriale. Da un lato, il requisito del valore artistico è una barriera contro un’eccessiva estensione della tutela, garantendo che solo i design di rilevante pregio estetico accedano alla protezione d’autore. Dall’altro, però, questa barriera crea difficoltà interpretative e si trasforma in una discriminante puramente nazionale: in assenza di criteri uniformi a livello europeo, decidere cosa sia “artistico”, “creativo” o tutelabile diventa una questione che varia da Stato a Stato, alimentando quella “schizofrenia normativa” di cui già avevo parlato (cfr. Design e “schizofrenia normativa”: quando il vero significato dell’arte si perde tra le maglie della legge – Canella Camaiora).
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha il merito di riaffermare un principio importante: l’Unione è una comunità che garantisce diritti d’autore uniformi, anche per i design esteri, evitando che gli Stati membri applichino criteri nazionali discordanti e autonomi, come quello della reciprocità. L’armonizzazione è un valore fondante del mercato unico europeo e, in questo senso, la decisione della Corte va nella direzione giusta. Tuttavia, il problema della frammentazione normativa interna permane: le differenze tra le leggi degli Stati membri sulla tutela del design, a livello di criteri e requisiti di protezione, continuano a generare incertezze.
A oggi, il design rimane in un limbo giuridico dove l’armonizzazione è solo parziale e dove le imprese sono costrette a muoversi tra normative nazionali diverse e spesso incompatibili tra loro. Sarebbe auspicabile un intervento normativo che affronti queste incoerenze, per garantire che il valore del design trovi una tutela efficace e uniforme, senza eccezioni. In assenza di una visione comune, si rischia che l’armonizzazione rimanga un ideale comunque non raggiunto.
Avvocato Arlo Canella