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Responsabilità sanitaria: districarsi tra medici, ATP e ospedali per ottenere il risarcimento

Pubblicato in: Contenziosi e Risarcimenti
di Celeste Martinez Di Leo
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Quando si tratta di controversie per risarcimenti in ambito sanitario, la scelta della strategia legale giusta può fare la differenza. Che si tratti di agire contro il medico o l’ospedale, oppure di optare per un Accertamento Tecnico Preventivo (ATP) o una mediazione, ogni percorso ha le sue implicazioni e può influire sui tempi e sull’esito della richiesta di risarcimento. 

Responsabilità sanitaria: chi è tenuto a risarcire il danno?

Quando un paziente subisce un danno – che sia una diagnosi errata, un’infezione ospedaliera dovuta a carenze igieniche, o un errore chirurgico – ha il diritto di chiedere un risarcimento per la responsabilità sanitaria. Questo tipo di responsabilità si verifica quando gli operatori sanitari, o le strutture stesse, commettono errori, omissioni o violazioni degli obblighi nei confronti del paziente (per approfondire il tema delle infezioni contratte negli ospedali si v. “Infezioni nosocomiali: chiariti i criteri per valutare la responsabilità della struttura sanitaria” di A. Canella).

La responsabilità può ricadere sia sulla struttura sanitaria, pubblica o privata, che sui professionisti sanitari (medici, infermieri, ecc.) che vi lavorano. In entrambi i casi, la legge distingue tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, due vie legali con implicazioni diverse. La responsabilità contrattuale si applica quando esiste un contratto, implicito o esplicito, tra il paziente e la struttura sanitaria. In questo scenario, il paziente ha 10 anni di tempo per presentare una richiesta di risarcimento e deve semplicemente dimostrare che il contratto esisteva e che l’obbligo non è stato rispettato.

La situazione è più complessa quando si tratta di responsabilità extracontrattuale, che è tipica dei singoli professionisti che non hanno stipulato alcun contratto diretto con il paziente perché il contratto è stato stipulato con la struttura sanitaria. Qui, per l’azione nei confronti del professionista sanitario, il termine di prescrizione è di 5 anni e l’onere della prova è più elevato: il paziente deve dimostrare che la condotta del medico ha causato direttamente il danno subito.

Un recente intervento della Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito la questione: anche se un medico ha risolto una lite mediante un accordo di transazione bonaria con il paziente liberandosi dalla propria obbligazione, il paziente può ancora chiedere il risarcimento all’ospedale. In tal caso, l’importo potrebbe essere ridotto, ma non viene preclusa la possibilità di ottenere un risarcimento (Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 30/05/2024, n. 15216).

Questo quadro normativo rende evidente come le strutture sanitarie debbano non solo vigilare sulle proprie azioni, ma anche su quelle dei propri dipendenti e collaboratori.

Meglio agire contro il medico o contro la struttura ospedaliera?

Quando si tratta di responsabilità per danni in ambito sanitario, la Legge Gelli-Bianco (Legge 8 marzo 2017, n. 24) adotta un approccio a “doppio binario”, distinguendo tra responsabilità della struttura sanitaria e responsabilità del professionista sanitario. In altre parole, il paziente danneggiato può cercare giustizia sia nei confronti dell’ospedale o clinica (pubblica o privata), sia nei confronti del medico che ha causato il danno (cfr. art. 7, Legge 8 marzo 2017, n. 24).

Questa distinzione è fondamentale perché i due soggetti rispondono in modo diverso. La struttura sanitaria è responsabile in via contrattuale. Ciò significa che deve rispondere per qualsiasi danno derivante dal mancato rispetto degli obblighi contrattuali impliciti nell’erogazione dei servizi sanitari al paziente durante il ricovero o la cura. Al contrario, il professionista sanitario – come un medico – è solitamente soggetto a una responsabilità extracontrattuale. Tuttavia, se esiste un contratto diretto di prestazione d’opera tra il paziente e il professionista (ad esempio, un accordo privato per una visita specialistica), anche il medico può essere chiamato a rispondere in via contrattuale.

Qual è la differenza? Nel caso di responsabilità contrattuale, il paziente ha un termine di 10 anni per chiedere il risarcimento e l’onere della prova è relativamente meno gravoso: basta dimostrare che il contratto esisteva e che l’obbligo non è stato adempiuto (artt. 1218 e 1228 del Codice Civile). Per la responsabilità extracontrattuale, invece, il termine di prescrizione è di 5 anni (ad eccezione dei casi previsti dall’art. 2947, comma 3, del Codice Civile), e il paziente deve dimostrare non solo l’inadempimento, ma anche che c’è stato un nesso causale diretto tra la condotta del medico e il danno subito, come stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 12/05/2023, n. 13107).

Un punto da tener a mente è che la struttura sanitaria può essere ritenuta responsabile non solo per i propri errori (ad esempio, la mancanza di igiene che causa un’infezione ospedaliera), ma anche per le azioni negligenti o dolose dei propri addetti, ai sensi dell’art. 1228 del Codice Civile “responsabilità per fatto degli ausiliari”. Ciò implica che anche se un medico ha già risolto la lite con il paziente, liberandosi dalla propria obbligazione, il paziente può comunque agire contro l’ospedale per il risarcimento. Come ha recentemente chiarito la Corte di Cassazione, questo potrebbe ridurre l’importo dovuto, ma non impedisce il risarcimento stesso (testualmente, “in tema di responsabilità sanitaria, il fatto che il medico abbia transatto la lite col paziente, venendo liberato dalla propria obbligazione, non impedisce al paziente di agire per il risarcimento nei confronti dell’ospedale; ciò comporta solo una riduzione dell’importo dovuto” – Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 30/05/2024, n. 15216).

Il concetto del “doppio binario” impone quindi ai pazienti di considerare attentamente chi chiamare in causa e sotto quale regime di responsabilità, poiché questo può influire significativamente sulle tempistiche, sull’onere della prova e sui possibili esiti della vertenza.

ATP o mediazione? Le strettoie prima del risarcimento in sanità

Prima di poter chiedere un risarcimento per malasanità, il paziente deve passare attraverso una delle due vie obbligatorie: l’Accertamento Tecnico Preventivo (ATP) conciliativo o la mediazione. Entrambi i procedimenti, previsti dalla Legge Gelli-Bianco (n. 24/2017), sono progettati per tentare una risoluzione rapida e meno conflittuale della controversia. L’ATP conciliativo, regolato dall’art. 696 bis c.p.c., permette di ottenere una valutazione tecnica sul danno e favorire una possibile conciliazione, mentre la mediazione mira a facilitare un accordo tramite un mediatore neutrale.

Nel contesto di una causa per risarcimento danni da responsabilità sanitaria, l’ATP conciliativo comporta l’esecuzione di una consulenza tecnica da parte di un perito nominato dal giudice competente. Il perito ha il compito di: 

  • esaminare i documenti medici forniti, 
  • valutare lo stato di salute del paziente, 
  • stabilire il nesso di causalità tra la condotta contestata e il danno alla salute, e 
  • quantificare il danno eventualmente subito. 

Questa perizia può risultare decisiva nel determinare le responsabilità e, se le parti conciliano, il verbale ha valore di titolo esecutivo.

Scegliere tra ATP e mediazione dipende dalla complessità del caso e dalla disponibilità delle parti a negoziare. L’ATP può essere più efficace quando è necessario un approfondimento tecnico dettagliato, mentre la mediazione può essere utile per controversie più semplici dove un accordo è realisticamente raggiungibile in tempi brevi. Entrambi i procedimenti servono a evitare le lungaggini di un processo ordinario, riducendo così i costi e i tempi per tutte le parti coinvolte.

© Canella Camaiora Sta. Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 14 Settembre 2024

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