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Vediamo come la “Direttiva EmpCo” e l’evoluzione dei green claims sono sono destinati a ridefinire il marketing e il business delle imprese.
I “green claims” sono dichiarazioni che collegano un prodotto, un servizio o l’intera attività di un’azienda a determinati benefici ambientali. Queste affermazioni possono riguardare la riduzione delle emissioni di carbonio, l’uso efficiente delle risorse o l’impiego di materiali riciclati. I green claims attirano soprattutto i consumatori sempre più attenti alle questioni ambientali, ma ormai tale focus è molto più di un semplice trend.
Secondo un’indagine di Demoskopea riportata da Paolo Mariani su Bnews, consumatori e aziende hanno visioni diverse di cosa significhi “essere sostenibili”. I consumatori associano la sostenibilità principalmente all’attenzione al clima, all’uso di energie rinnovabili e al rispetto dei diritti dei lavoratori. Le aziende, invece, devono puntare a modelli di produzione e consumo che, in linea con la normativa comunitaria, soddisfino i bisogni attuali senza compromettere il futuro, concentrandosi su obiettivi di lungo termine come la riduzione delle emissioni di CO2 e una gestione necessariamente responsabile delle risorse naturali.
Il 67% dei consumatori a livello globale – secondo un articolo pubblicato su FedEx – già nel 2021 cercava di avere un impatto positivo sull’ambiente. Inoltre, il 62% dei consumatori sembrerebbe disposto a modificare le proprie abitudini di acquisto per ridurre l’impatto ambientale. In particolare, l’89% dei consumatori pensa che le aziende dovrebbero fare molto di più per ridurre il loro impatto di carbonio, l’88% è convinto che la sostenibilità dovrebbe diventare una pratica di business standard e l’82% crede che le aziende dovrebbero mettere le persone e il pianeta al primo posto.
Si può dire, quindi, che la sostenibilità sia diventata un fattore decisivo nelle scelte di acquisto. Un’immagine aziendale allineata ai valori di sostenibilità, quindi, è in grado di attirare clienti e crea un legame di fiducia più forte con i consumatori. Con l’entrata in vigore della Direttiva UE 2024/825, pertanto, l’Unione Europea ha introdotto standard più rigorosi in materia di green claims, elevando le sanzioni in caso di asserzioni ambientali pronunciate dalle società senza il supporto di prove concrete.
Per approfondire il collegamento tra i green claims e la gestione ESG (Environmental, Social, and Governance), si rimanda al documento ‘Impatto degli ESG con particolare riferimento alle PMI‘ predisposto dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, il quale offre una panoramica dettagliata su come i principi di sostenibilità ESG possano essere applicati efficacemente all’interno delle PMI.
Con l’introduzione della Direttiva UE 2024/825 “EmpCo” (che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione) l’Unione Europea ha rafforzato il quadro normativo per prevenire il greenwashing, stabilendo standard più severi per le c.d. “asserzioni ambientali”.
In buona sostanza la normativa coinvolge qualsiasi asserzione commerciale e chiarisce la sanzionabilità nel marketing di marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, ingannevolmente “green”, anche da un punto di vista meramente grafico o simbolico.
La direttiva definisce l’“asserzione ambientale” (green claim) nel seguente modo: “nel contesto di una comunicazione commerciale, qualsiasi messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio a norma del diritto dell’Unione o nazionale, in qualsiasi forma, compresi testi e rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche, quali marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, che asserisce o implica che un dato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure è meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti, categorie di prodotto, marche o operatori economici oppure ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo” (cfr. art. 1 Direttiva UE 2024/825 che modifica l’art. 2 della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali).
Queste affermazioni, se si decide di metterle in campo, devono essere supportate da prove verificabili e dati scientifici che dimostrino l’effettivo impatto positivo sull’ambiente. In questo senso, tali affermazioni sono l’altra faccia della medaglia delle pratiche ESG (per approfondire, ESG e imprese: come prepararsi alla transizione sostenibile).
Il greenwashing, per contro, è l’uso di tecniche di marketing per presentare un’azienda o un prodotto come più ecologici di quanto non siano realmente. Questa pratica ingannevole può confondere i consumatori e distorcere la concorrenza, danneggiando la fiducia dei consumatori nelle effettive pratiche sostenibili delle aziende. Per questa ragione, soprattutto a causa della sua diffusione sempre più estesa, viene disciplinata e sanzionata.
Uno dei principali obiettivi della nuova direttiva, quindi, è eliminare l’uso di dichiarazioni ambientali vaghe e non supportate. Termini come “impatto zero”, “carbon neutral”, o “100% naturale” devono essere supportati da dati verificabili e non possono essere usati liberamente senza adeguato supporto probatorio e conforto scientifico. Questo cambiamento normativo mira a garantire che i consumatori non vengano tratti in inganno da affermazioni ambigue o esagerate. Tuttavia, come vedremo tra poco, la normativa non si limita a questo ma entra molto più nel dettaglio.
In Italia, anche prima dell’entrata in vigore della Direttiva UE 2024/825, varie leggi sanzionano indirettamente i green claims ingannevoli e quindi il greenwashing:
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) può ordinare il ritiro dei prodotti dal mercato, la cessazione delle comunicazioni ingannevoli, imporre multe amministrative che variano da 5.000 a 5.000.000 di euro a seconda della gravità, delle caratteristiche e della durata della violazione, e la pubblicazione dell’ordine o di una dichiarazione correttiva a spese del trasgressore. In alcuni casi particolarmente gravi le sanzioni possono raggiungere i 10 milioni di Euro come previsto dal codice del consumo italiano.
Se un’azienda si attribuisce falsamente un merito, inclusi eventuali benefici ambientali che non possiede realmente, tale condotta può rientrare in vario modo tra le condotte vietate ai sensi dell’art. 2598 del Codice Civile italiano e potrebbe risultare contrario a principi della correttezza professionale di cui al punto 3. Secondo l’articolo 2043 del Codice Civile italiano, qualsiasi azione che si traduca in un danno ingiusto può essere sanzionata: risultano potenzialmente inclusi, pertanto, anche i falsi meriti aziendali e la correlata pubblicità ingannevole. Il Codice Penale italiano prevede sanzioni in caso di frode e inganno, che possono applicarsi anche ai green claims ingannevoli, ad esempio, l’art. 515 (frode nell’esercizio del commercio), l’art. 517 (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), art. 640 (truffa) e 640-bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche).
Il Codice di Autodisciplina della Pubblicità, gestito dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), gioca un ruolo fondamentale nel definire e mantenere standard etici elevati nella pubblicità in Italia. I principi dello IAP riguardanti i green claims sono stati riepilogati nella sua brochure “Green Claims: Comunicare la sostenibilità responsabilmente“. Questo documento sottolinea l’importanza di supportare ogni affermazione ambientale con prove concrete e chiare, seguendo metodologie scientifiche aggiornate per prevenire il greenwashing mediante:
Inoltre, l’articolo 12 del Codice di Autodisciplina recita testualmente: “la comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. Tale articolo, introdotto nel 2014, si può dire che anticipi in modo sostanziale i principi alla base della direttiva comunitaria recentemente entrata in vigore. Dedichiamoci pertanto all’analisi della direttiva “EmpCo” con maggiore attenzione.
Abbiamo visto come l’Unione Europea stia intensificando gli sforzi per contrastare il greenwashing attraverso l’introduzione di due direttive chiave:
Entrambe le direttive si inseriscono nel quadro del Green Deal Europeo e mirano a promuovere una comunicazione trasparente e verificabile sui profili ambientali dei prodotti e dei servizi.
La Direttiva UE 2024/825, nota come “EmpCo” Directive, stabilisce requisiti rigorosi per le imprese, imponendo che tutte le comunicazioni pubblicitarie (“claim generali”) contenenti asserzioni ambientali “green”, inclusi marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, anche da un punto di vista meramente grafico o simbolico, siano supportate da prove scientifiche solide e facilmente accessibili ai consumatori, perché potrebbero risultare ingannevoli.
D’altra parte, la proposta di direttiva COM/2023/166 o “green claims directive”, si concentra specificamente sui “claim espliciti“ relativi ai benefici ambientali dei prodotti. Questa direttiva mira a regolamentare le dichiarazioni testuali e verbali, richiedendo che siano chiaramente definite e basate, in modo ancora più severo, su evidenze concrete.
L’obiettivo di entrambe le direttive è evitare che i consumatori siano indotti in errore da affermazioni non verificate o vaghe riguardo alle caratteristiche ecologiche dei prodotti, traendo vantaggio dalla concorrenza sleale tra imprese, basata su dichiarazione mendaci o ingannevoli.
In particolare, la Direttiva UE 2024/825 (EmpCo Directive) può essere riassunta in tre punti principali:
La direttiva precisa, in particolare, la definizione e i requisiti di un “sistema di certificazione”. Questo sistema di certificazione è un processo di verifica da parte di terzi che certifica la conformità di un prodotto, processo o impresa a determinati requisiti, consentendo l’uso di un marchio di sostenibilità. Le condizioni, compresi i requisiti del sistema di certificazione, devono essere accessibili al pubblico e soddisfare i seguenti criteri:
Inoltre, la direttiva introduce il concetto di “eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali”. Questo si riferisce a prestazioni ambientali conformi al regolamento (CE) n. 66/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, a un sistema nazionale o regionale di assegnazione di marchi di qualità ecologica di tipo I, conforme alla norma EN ISO 14024 e ufficialmente riconosciuto negli Stati membri, oppure conformi alle migliori prestazioni ambientali ai sensi delle altre disposizioni applicabili del diritto dell’Unione.
Inoltre la Direttiva UE 2024/825 (EmpCo Directive) introduce una severa black list di asserzioni ambientali che sono considerate come tassativamente vietate e, quindi, sanzionate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato AGCM (per approfondire, Greenwashing: la ‘black list’ delle dichiarazioni vietate in UE).
Come detto, se la prima direttiva si riferisce a claim generali, la seconda direttiva si pone come lex specialis. La proposta di COM/2023/166 (Green Claims Directive), presentata il 22 marzo 2023, mira a armonizzare la valutazione e il monitoraggio dei green claims espliciti nell’UE.
Innanzitutto, la proposta di direttiva definisce con precisione che cosa si intende per “asserzione ambientale esplicita” e stabilisce che queste devono essere chiaramente riferite all’intero prodotto, a una parte di esso, o a specifici aspetti del prodotto stesso. Questo livello di dettaglio aiuta a prevenire la pratica ingannevole di estendere vantaggi ambientali parziali all’intero prodotto o azienda, una pratica che la Direttiva EmpCo vieta in termini generali.
Un altro punto di integrazione riguarda la necessità di basare le asserzioni su evidenze scientifiche ampiamente riconosciute e metodologie robuste. Mentre la Direttiva EmpCo richiede che tutte le asserzioni ambientali siano supportate da prove verificabili, la Green Claims Directive specifica ulteriormente che tali asserzioni devono considerare il ciclo di vita del prodotto e dimostrare che gli impatti ambientali oggetto dell’asserzione sono significativi. Questo implica che le aziende devono effettuare valutazioni ambientali complete e trasparenti, coprendo tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto.
Inoltre, la Green Claims Directive impone che le asserzioni ambientali esplicite siano verificate da terze parti indipendenti prima di essere utilizzate. Questo requisito di verifica preliminare non solo rafforza l’affidabilità delle asserzioni, ma contribuisce anche a uniformare le pratiche di valutazione e certificazione in tutta l’UE. La Direttiva EmpCo stabilisce l’importanza della certificazione da parte di terze parti, ma è la Green Claims Directive che ne dettaglia le modalità operative, assicurando che i certificatori siano adeguatamente accreditati e indipendenti.
La Direttiva UE 2024/825 (“EmpCo” Directive) avrà un impatto significativo sul marketing, sui marchi e sul naming delle imprese. Innanzitutto, le aziende dovranno rivedere attentamente le loro strategie di comunicazione per garantire che tutte le asserzioni ambientali siano supportate da prove scientifiche solide. Questo significa che claim vaghi o non verificati come “ecologico” o “verde” non saranno più accettabili senza adeguate evidenze.
In termini di marketing, le imprese dovranno adottare un approccio più trasparente e dettagliato nella promozione dei loro prodotti. Le campagne pubblicitarie dovranno fornire informazioni chiare e verificabili sui benefici ambientali, riducendo il rischio di incorrere in accuse di greenwashing. Questo potrebbe richiedere investimenti in ricerche e certificazioni ambientali preventive, ma potrà anche portare a una maggiore fiducia da parte dei consumatori.
Per quanto riguarda i marchi e il naming, le aziende dovranno essere particolarmente attente nella scelta dei nomi di prodotti e brand. Qualsiasi riferimento a vantaggi ambientali dovrà essere rigorosamente verificato e supportato da dati concreti. I nomi che suggeriscono benefici ecologici senza adeguato supporto potrebbero essere considerati ingannevoli e quindi sanzionabili. Le aziende potrebbero dover rivedere e modificare i nomi di marchi, prodotti o servizi per conformarsi alle nuove norme.
In questo contesto, il principio di verità nei marchi d’impresa diventa fondamentale (cfr. art. 21 Codice di Proprietà Industriale). Tutte le affermazioni e rappresentazioni fatte da un’azienda devono essere oneste e verificabili, per mantenere la fiducia dei consumatori e consentire una concorrenza leale. Un marchio che inganna i consumatori, sia intenzionalmente sia per negligenza, rischia non solo sanzioni legali, ma anche danni significativi alla reputazione aziendale.
Considerando che i marchi hanno una durata minima di dieci anni (salvo rinnovo), prima di investire nella registrazione di marchi o slogan contrari alla EmpCo Directive, è essenziale rivolgersi a legali specializzati per verificare la conformità delle iniziative commerciali anche prima dell’effettiva entrata in vigore della normativa (per approfondire, Greenwashing: la ‘black list’ delle dichiarazioni vietate in UE).
Il naming scelto oggi potrebbe condizionare la comunicazione futura, per cui è importante assicurarsi che tutte le comunicazioni siano allineate con i nuovi requisiti normativi. Si può dire che gli aspetti di compliance normativa in materia di green washing vanno necessariamente a integrare il perimetro di intervento dell’esperto in brand naming (per approfondire, “Le implicazioni legali del naming: come scegliere meglio un marchio”).
In conclusione, la Direttiva “EmpCo” obbliga le aziende a una maggiore responsabilità e trasparenza nelle loro asserzioni ambientali, il che implica una riconsiderazione complessiva delle proprie dichiarazioni nell’ambito del marketing e del branding. In alcuni casi, si rende necessario provvedere ad una autentica riqualificazione del proprio portfolio marchi, passando per il rebranding, quando necessario, o per una declinazione dell’identity più veritiera e responsabile.
Avvocato Arlo Canella