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In un’era in cui la proprietà intellettuale si intreccia sempre più con questioni etiche e legali, la registrazione di marchi che flirtano con i limiti dell’ordine pubblico e del buon costume rappresenta una sfida complessa per professionisti e imprese. Questo articolo esplora le dinamiche e le implicazioni di tale pratica nel panorama giuridico attuale.
Torno, dopo un po’ di tempo, a “intingere il pennino nel calamaio”, e lo faccio – ancora una volta – per parlare di uno degli argomenti che da sempre trovo più sfidanti, ovverosia quello dei marchi e della potenziale contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.
Questa volta, però, la lente di ingrandimento con cui avremo guardato al fenomeno ci mostrerà una prospettiva diversa dal solito.
Almeno per certi versi, viviamo in un periodo storico ricco di eccessi e di estremismi, in cui molti ammiccano con una certa nostalgia ad alcune opinabili ideologie del passato e, di conseguenza, è per taluni versi “comprensibile” (benché non condivisibile) che alcune frange imprenditoriali provino a cavalcare anche queste onde del mercato.
Per non parlare dei casi, censurabili tout court, in cui certe parole e simboli vorrebbero essere riportati in auge per finalità socio-politiche deplorevoli.
Ebbene, esistono alcuni marchi (per lo più di fatto) che sfruttano determinati “codici” comunicativi tramite il cui utilizzo si vorrebbe appunto aggirare il divieto di usare simboli, slogan, nomi e parole che inneggino a ideologie e/o movimenti politici messi al bando.
Si pensi, per esempio, alla dicitura “HKNKRZ” utilizzata per marcare abbigliamento e oggettistica di vario genere richiamando al contempo la “Hakenkreuz”, ovvero la svastica (nazista).
Alcuni di voi non avranno mancato di notare come il marchio stampato sulla felpa di cui sopra ricalchi il logo dei Run DMC, gruppo (nero) hip hop statunitense, attivo fra il 1983 e il 2002: ulteriore tentativo di camuffamento o beffa aggiuntiva?
Intercettare questi codici di aggiramento è, a volte, quasi immediato: si pensi alla dicitura “WHT PWR” per alludere evidentemente al “White Power”, o ancora alla contrazione “FCK” per non riportare nella sua interezza lo scurrile “Fuck”.
Altre volte invece, anche per gli uffici marchi e brevetti, accorgersi della magagna può non essere così semplice. Alcuni esempi:
Gli uffici marchi e brevetti dei vari paesi stanno giustamente prendendo le misure al fenomeno, ma riuscire a inibire la registrazione di questi simboli non va di pari passo con il bloccarne l’utilizzo effettivo.
Non a caso, una veloce navigazione online fa emergere la persistente diffusione di fatto di alcuni di questi opinabili segni distintivi:
Ebbene, per contrastare questo fenomeno, l’agenzia pubblicitaria tedesca Jung von Matt e l’associazione antifascista Laut gegen Nazis hanno deciso di registrare questi segni, per poi poter agire contro i contraffattori.
Ecco quindi che a livello di Unione Europea è stato depositato e registrato – per esempio – il marchio “VTRLND” (nr. 018796698), per inibire agli operatori neonazisti e, più in generale, ultranazionalisti l’utilizzo in chiave xenofoba del termine “Vaterland” (“Patria”).
Sulla scorta della medesima strategia, è stata altresì richiesta la registrazione del marchio comunitario “HKNKRZ” (nr. 018558068), depositato per potenzialmente contrassegnare – fra le altre cose – capi d’abbigliamento.
In questa occasione, però, il segno è stato rifiutato dall’EUIPO per violazione dell’articolo 7 del Regolamento sul marchio comunitario, in particolare della previsione per cui “1. Sono esclusi dalla registrazione… f) i marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume”, anche quanto “2. … le cause d’impedimento esistono soltanto per una parte dell’Unione”.
L’Ufficio ha inevitabilmente evidenziato come la dicitura “HKNKRZ” sia solo apparentemente innocua: al netto delle vocali rimosse, infatti, la dicitura allude alla “Hakenkreuz”, ovvero la svastica (nazista).
Qual è, dunque, l’insegnamento (di portata generale) di questo precedente? Quello che imprenditori, professionisti e operatori economici in genere devono tenere in considerazione è che mentre i Tribunali, in talune circostanze ed entro certi limiti, fanno valutazioni in cui le motivazioni sottese a un determinato utilizzo possono avere un rilievo importante, gli Uffici marchi e brevetti – al momento del deposito di un segno distintivo – svolgono un esame che si focalizza soprattutto sulla congruità e liceità in astratto del segno.
Si comprende quindi come risulti fondamentale, a monte, la scelta di un segno al contempo forte (nel senso tecnico-giuridico del termine) e incontestabile, per evitare di perdere tempo e denaro nel tentativo di superare fastidiose obiezioni degli Uffici, o peggio di dover rinunciare al proprio deposito.
Avvocato Daniele Camaiora