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Nel panorama dell’industria cinematografica, il plagio rappresenta una minaccia costante per i diritti degli autori. Il copyright, come istituto giuridico, mira a garantire che gli autori possano godere dei frutti del loro lavoro, proteggendo le loro creazioni dallo sfruttamento non autorizzato.
Si può parlare di plagio, nel contesto cinematografico, quando un’opera filmica riproduce elementi chiave di un’altra opera senza autorizzazione degli aventi diritto. Ci si trova, dunque, di fronte ad un caso di plagio quando un’opera risulta riconoscibile in un’altra.
La condotta plagiaria, oltre ad arrecare un danno morale (non patrimoniale), può anche danneggiare economicamente gli autori e i titolari dei diritti sull’opera originale, i quali, infatti, sono gli unici ad avere il diritto di sfruttamento economico-patrimoniale dell’opera.
Di recente, è stato oggetto di dibattito il film di animazione “Rango” (2011). I soggetti coinvolti nella produzione e nella distribuzione della pellicola in questione sono stati accusati di aver plagiato il personaggio dell’uomo senza nome, interpretato da Clint Eastwood nella cosiddetta trilogia del dollaro di Sergio Leone (“Per un pugno di dollari” 1964, “Per qualche dollaro in più” 1965, “Il buono, il brutto, il cattivo” 1966).
Nonostante le accuse, il giudice di primo grado ha stabilito che non ci si trovasse di fronte ad un caso di plagio e, successivamente, anche il giudice dell’impugnazione ha confermato la sentenza di primo grado confermando l’assenza di plagio. Ciò perché il collegio ha ritenuto che quando il film Rango cita l’uomo senza nome, riproducendone le caratteristiche somatiche, di abbigliamento e di morale, si riferisca più all’attore che al personaggio e alla sua rilevanza creativa.
Inoltre, la corte ha ribadito la durata minima dell’apparizione, per dar sfogo al citazionismo proprio dell’opera Rango, ha inteso più che altro rendere omaggio all’attore e regista Clint Eastwood, più che appropriarsi del personaggio in sé dell’uomo senza nome.
Oltretutto, autorialmente, per ritenere tutelabile un personaggio in sé e per sé, questo dovrebbe avere rilevanza anche se scisso dall’attore che lo ha impersonato. Il che, ad avviso della corte non può essere nel caso dell’uomo senza nome (la corte cita, a mo’ di esempio, James Bond, la cui tutela prescinde del tutto dagli attori che si sono succeduti nell’impersonarlo).
Si può dire nel caso in questione, invece, che non si possa parlare di “uomo senza nome” senza avere a mente il carisma di Clint Eastwood. In definitiva, nessuna tutela autoriale per il personaggio di per sé.
Se poi vengono a paragonarsi le trame dei film della trilogia del dollaro con la trama di Rango, non sono stati individuati elementi coincidenti, di talché non vi è riconoscibilità delle opere di Sergio Leone in quella della pellicola considerata plagiaria: “si tratta di trame e di personaggi del tutto diversi che nulla hanno in comune se non la riproduzione per pochi attimi dell’attore Clint Eastwood nel film “Rango“ (Corte d’Appello Roma, Sez. spec. in materia di imprese, Sent., 31/08/2022, n. 5432).
Per parlare di plagio occorre sempre analizzare con precisione i precedenti, verificare quali siano gli elementi oggetto di ripresa, per verificare se tale ripresa sia legittima oppure no.
Nella storia della cinematografia sono molte, in vero, le accuse di plagio che si sono risolte in nulla o che sono state probabilmente concluse in via transattiva tra le parti.
Ad esempio, anche James Cameron è stato accusato di plagio per Avatar (2009) perché troppo somigliante ad Aida degli alberi (2001), lungometraggio italiano di animazione per la regia di Guido Manuli. Cameron ha invitato la casa di produzione italiana, La Lanterna Magica, nella sua villa di Cape Cod e la vertenza pare si sia chiusa bonariamente.
E ancora, il film pluripremiato “The Shape of Water (2017)” è stato accusato di aver copiato quasi completamente il dramma teatrale “Let Me Hear Your Whisper”.
Infine, The Terminator (1984), sempre di Cameron, è stato accusato di plagio con riferimento alla scena di apertura tratta dalla serie “I Limiti Esterni” scritta da Harlan Ellison.
Quanto sopra solo per dare un assaggio di quanto possa risultare complesso valutare la sussistenza del plagio e quale attenta considerazione richieda identificare il superamento di limiti eticamente e giuridicamente accettabili.
L’utilizzo, in tutto o in parte, di un’opera cinematografica altrui – secondo il diritto italiano o europeo – è quasi sempre vietato. Fa eccezione il caso in cui la seconda opera, che pur include l’opera precedente, può essere considerata nuova ed originale al punto da costituire un’opera comunque indipendente.
In particolare, nei casi di caricatura, parodia o pastiche, di critica o di satira è possibile l’utilizzo di opera altrui proprio per questa ragione ossia perché cambia radicalmente il messaggio artistico e l’intenzione.
Al di là delle opere nuove o satiriche, esistono comunque alcuni casi in cui può essere considerato lecito l’atto di citare l’opera altrui: “il legislatore italiano avrebbe previsto tassative e specifiche di eccezioni e limitazioni ai diritti esclusivi d’autore, tra le quali sono appunto ricomprese:
Gli articoli della legge italiana si riferiscono quindi a specifiche eccezioni ai diritti esclusivi di autore contenute nella “Legge sul Diritto d’Autore” (l.d.a.), precisamente gli articoli 65 e 70. Queste disposizioni stabiliscono i limiti entro cui è possibile utilizzare opere protette senza necessariamente ottenere il permesso dell’autore.
L’articolo 65, comma II, l.d.a. tratta della riproduzione di opere per scopi di cronaca. Secondo questa disposizione, è permesso riprodurre opere al fine di esercitare attività di cronaca, ma solamente nei limiti necessari per scopi informativi. Ciò significa che la riproduzione deve essere strettamente legata all’obiettivo di informare il pubblico, come nel caso di notizie o di reportage giornalistici. L’uso dell’opera deve essere proporzionato e non può eccedere quanto è strettamente necessario per informare.
Ad esempio, un giornalista potrebbe citare parti di un libro o mostrare un’immagine di un’opera d’arte nel contesto di un articolo di attualità, purché tale uso sia giustificato dall’esigenza di informare il pubblico e non vada oltre tale scopo. Tuttavia, questo articolo è considerato “inconferente” rispetto a casi che non riguardano la cronaca, ovvero non può essere invocato per giustificare l’uso di opere in contesti diversi da quello informativo.
L’art. 70 l.d.a., invece, permette il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di un’opera per uso di critica o di discussione, a patto che tali usi siano nei limiti giustificati da questi fini, che non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera e che venga incluso il credito dell’opera stessa, al fine di poter identificare l’autore effettivo.
In altre parole, è possibile utilizzare parti di un’opera per criticarla o discuterla in ambiti come recensioni, analisi accademiche o altre forme di discussione critica.
L’uso deve essere proporzionale al fine di critica o discussione e non deve interferire con le possibilità di mercato dell’opera originale. Ad esempio, un critico letterario può citare parti di un romanzo in una recensione, ma non può riprodurre così tanto del testo da sostituire la necessità di acquistare l’opera originale.
Uno dei principali dilemmi nel determinare i limiti del copyright nel cinema è distinguere tra ispirazione legittima e utilizzo scorretto di opere preesistenti, e quindi plagio. Molti film attingono a temi, trame e motivi già esplorati in opere precedenti e questo è un fenomeno naturale nell’evoluzione artistica. Tuttavia, c’è una sottile linea che separa l’ispirazione e la copia diretta e questa distinzione può essere soggettiva ed essere oggetto di contestazione.
Vi sono, però, alcuni indici che aiutano a collocarsi da un lato piuttosto che dall’altro, ad esempio:
Quantità e sostanza: la quantità di opera utilizzata e l’importanza data a quella parte nel contesto dell’opera complessiva possono essere criteri di valutazione del plagio. Un uso minimo può essere talvolta giustificato, soprattutto se, come già affermato poc’anzi, l’opera risultante si discosta significativamente da quella originale in termini di messaggio.
“L’opera cinematografica appropriazionista, che, mediante l’uso della beffa e dello scandalo, trasmetta un messaggio originale e creativo non può ridursi a mera contraffazione, dell’opera appropriata, ma è da ritenersi lecita in virtù dell’esimente della parodia”.
Questo è quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza n. 201 del 3 settembre 2014 (C-201/2013).
Del resto, la parodia stessa è riconosciuta come diritto costituzionalmente garantito in quanto declinazione della libertà di espressione critica (tutelata dagli articoli 21 e 33 della Costituzione italiana).
La parodia, per definirsi tale, deve possedere determinate caratteristiche: deve, infatti, essere evocativa di un’opera esistente (comunque discostandosi leggermente da quest’ultima), ed allo stesso tempo deve avere un intento umoristico e canzonatorio.
Nonostante l’assenza di un chiaro riferimento normativo all’interno del nostro ordinamento giuridico, il genere dell’opera parodistica rientra senza dubbio nella sfera delle opere dell’ingegno dotate di autonoma individualità e liceità e si inserisce, quindi, pienamente nei diritti garantiti dai sopra citati articoli 21 e 33 della Costituzione, non restando così alcun dubbio in merito alla sua legittimità.
Luigi Sagliocchi