Con pronuncia dello scorso 10/11/2016, la Corte di Giustizia (C-30/15 P) ha messo la parola fine alla storia del celeberrimo cubo di Rubik quale “marchio tridimensionale” («Marchio tridimensionale a forma di cubo con facce aventi una struttura a griglia»).
La Corte, infatti, ha riformato la precedente sentenza del Tribunale dell’Unione Europea (primo grado, 25/11/2014) e accolto integralmente le conclusioni in diritto dell’Avvocato generale.
Ora, secondo il Regolamento (CE) 40/94 del Consiglio (c.d. “Regolamento sul Marchio Comunitario”) e, in particolare, secondo l’articolo 7 (“Impedimenti assoluti alla registrazione”):
«1. Sono esclusi dalla registrazione:
[…]
e) i segni costituiti esclusivamente:
i) dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, oppure
ii) dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, oppure
iii) dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto».
La ratio della norma testé richiamata consiste nell’evitare che il diritto dei marchi finisca con il conferire a un’impresa un monopolio su soluzioni tecniche o su caratteristiche utilitarie di un prodotto, in danno del mercato e – nello specifico – della generalità dei consumatori.
Sembra tutto molto chiaro e, allora, come è potuto succedere che il Tribunale dell’Unione Europea abbia preso una decisione che la Corte si è poi sentita in dovere di cassare?
Il nodo problematico sta nel fatto che non era stata ancora direttamente affrontata la questione se – nella valutazione richiesta dall’articolo 7, lettera e) sopra richiamato – ci si dovesse limitare a valutare “in astratto” la registrabilità come marchio di una data forma, oppure considerarne anche l’utilizzo in concreto.
Il Tribunale di primo grado, fermandosi appunto alla valutazione (astratta) del materiale grafico allegato alla domanda di registrazione, aveva optato per la validità del marchio, ritenendo che la “funzionalità” del cubo stesse tutta nell’invisibile ingranaggio interno.
La Corte di Giustizia, invece, aderendo alle conclusioni dell’Avvocato generale, ha sottolineato come, nel caso di specie, non si trattasse «di cercare caratteristiche nascoste, invisibili nella forma depositata», bensì di valutare come – in concreto – la forma si dovesse applicare a un puzzle, costituendone peraltro parte essenziale del funzionamento (e ricadendo quindi nell’alveo della norma sopra citata) al pari del meccanismo interno.
Con buona pace della Seven Towns (società britannica che gestisce, fra l’altro, i diritti di proprietà intellettuale relativi al “cubo di Rubik”) e con sollievo di tutti i produttori di giocattoli (fra cui la tedesca Simba Toys GmbH & Co., dal cui ricorso è partita la causa per l’accertamento della nullità) che potranno liberamente mettere sul mercato i loro cubi.
Milioni di giocatori nel Mondo, quindi, avranno l’imbarazzo della scelta del “cubo magico” più gradito.
Avvocato Daniele Camaiora