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Quando le direttive del datore di lavoro cozzano con principi legali o etici, nascono questioni complesse in merito al comportamento che il dipendente è tenuto ad adottare per evitare ripercussioni legali.
Il dovere di aderire alle istruzioni impartite dal datore di lavoro rappresenta uno dei doveri cardine del lavoratore dipendente.
Ma cosa succede quando una direttiva oltrepassa il confine della legalità o dell’etica? Il lavoratore può opporsi?
Questi sono interrogativi comuni che anche la Cassazione, in più di un’occasione, si è posta.
Il rapporto di lavoro dipendente impone al lavoratore una serie di doveri nei confronti del proprio datore di lavoro. Tra questi, vi è il dovere di diligenza e “obbedienza” che impone al lavoratore di osservare le disposizioni del datore di lavoro, nonché il dovere di fedeltà, entrambi disciplinati dal Codice Civile italiano, rispettivamente dagli articoli 2104 e 2105.
In particolare, l’art. 2014 (diligenza del prestatore di lavoro) prevede che: “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”.
L’art. 2015 (obbligo di fedeltà) invece prevede che: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”
Di fronte a un inadempimento di detti obblighi, al lavoratore può essere irrogata una sanzione disciplinare o addirittura il c.d. licenziamento in tronco (per giusta causa).
Spesso quindi il lavoratore, a prescindere dalla natura e dal contenuto dell’ordine che gli viene imposto, lo attua senza sollevare obiezioni poiché spinto da un senso di timore reverenziale verso l’autorità superiore che potrebbe, appunto, irrogare sanzioni.
Proprio per bilanciare la posizione di subordinazione del lavoratore e l’autorità datoriale o del superiore, l’ordinamento pone dei limiti specifici.
Innanzitutto il datore di lavoro deve rispettare, in generale, i doveri di buona fede e correttezza. Non può, quindi, discriminare i lavoratori né porre in essere comportamenti ritorsivi, né tanto meno può ordinare loro dei comportamenti che potrebbero mettere in pericolo la loro sicurezza fisica.
Si pensi al caso affrontato dalla Cassazione con sentenza n. 28353 del 2021 di due ferrovieri che avevano disatteso l’ordine di guidare un treno in modalità “equipaggio misto” senza un altro macchinista o agente abilitato, poiché era una pratica contraria ai regolamenti aziendali e alle norme di sicurezza. La Cassazione aveva respinto il ricorso, sottolineando che la violazione dell’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro legittima il rifiuto dei lavoratori di eseguire la prestazione eccependo, ai sensi dell’art. 1460 c.c., l’inadempimento del datore, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto al lavoratore non possono derivare conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta scorretta del datore.
Pertanto, dinanzi ad una direttiva datoriale antigiuridica che si pone in contrasto con l’utilità sociale o che crea un rischio per la la sicurezza, la libertà o la dignità umana (propria o di altri), il lavoratore può, anzi deve, astenersi dal suo adempimento.
Certo è che in alcuni casi vi è una linea sottile tra ciò che è illecito e ciò che non lo è. Certamente possiamo affermare che quando esso comporti la commissione di un reato, il soggetto esecutore – per evitare di incorrere in responsabilità penali – deve rifiutarsi di adempierlo.
Ricordiamo, infatti, che la natura subordinata del dipendente non offre un riparo sicuro dalle ripercussioni legali derivanti da azioni illecite, anche se disposte esplicitamente dal proprio datore di lavoro (o dal proprio superiore).
A ciò consegue che ove il lavoratore, consapevole dell’illiceità della richiesta, decidesse di eseguire comunque l’ordine, potrebbe senza dubbio incorrere in responsabilità, anche penale ed anche in concorso con il proprio datore di lavoro.
Un caso interessante è stato affrontato dalla Cassazione con sentenza n. 3394 del 2017. Nel caso in questione, al lavoratore era stato impartito l’ordine dal suo superiore di alterare le date di scadenza su alcuni prodotti alimentari all’interno del punto vendita in cui lavorava.
Dopo essere stati condannati in primo e secondo grado, sia il dipendente che il responsabile del punto vendita fecero appello alla Corte Suprema, la quale non solo confermò la condanna ma sottolineò anche la responsabilità del dipendente, nonostante fosse un semplice esecutore materiale dell’ordine illecito.
La Corte evidenziò che la paura di possibili ritorsioni non era sufficiente a giustificare il comportamento del dipendente, il quale di fronte ad un ordine di questa portata – che di fatto danneggiava l’incolumità dei propri clienti – avrebbe dovuto disobbedire.
Neppure lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice Penale fu ritenuto sufficiente per esonerare il dipendente dalla responsabilità (secondo l’art. 54 codice penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”).
Non può nemmeno invocarsi la scriminante dell’adempimento di una direttiva della pubblica autorità di cui all’art. 51 codice penale, poiché nel rapporto di lavoro privato è assente un vero e proprio potere di supremazia del superiore gerarchico riconosciuto dalla legge.
Il lavoratore, oltre ai doveri nei confronti del datore di lavoro (di fonte contrattuale), ha altresì dei doveri, in quanto cittadino, nei confronti della comunità. Ciò consegue che di fronte a un ordine che ritiene contra legem (poiché si configurerebbe un reato, per esempio) egli ha il dovere di opporsi.
Per agire in modo conforme alla legge e per evitare di passare dalla parte del torto, il dipendente dovrebbe, innanzitutto opporsi al datore di lavoro o al superiore, giustificando le proprie perplessità riguardo l’ordine ricevuto, spiegando dettagliatamente le motivazioni che lo inducono a considerare illegittimo quel determinato ordine.
La segnalazione di illeciti, talvolta, è agevolata dalla normativa in materia di whistleblowing (per approfondire si rimanda all’articolo di Antonella Marmo: “Come si tutela chi segnala illeciti, corruzione o abusi sul lavoro: la disciplina sul c.d. Whistleblowing”).
Quando possibile, infatti, richiedere una consulenza ad un avvocato esperto in diritto del lavoro è certamente il passo più corretto per accertarsi che l’attività richiesta sia effettivamente illegale, evitando così di ricevere una contestazione disciplinare per aver disobbedito ad un ordine datoriale.
Qualora, nonostante l’opposizione, l’ordine dovesse essere confermato dal datore, il dipendente dovrebbe procedere con l’invio di una lettera scritta al datore di lavoro. In questa comunicazione, è importante ribadire con chiarezza, con l’ausilio di un legale, le obiezioni all’ordine impartito e formalizzare la contestazione, mettendo in mora il datore di lavoro rispetto alla richiesta di revoca dell’ordine stesso.
Se le vie di comunicazione interna non dovessero portare alla revoca dell’ordine ritenuto illegittimo, il dipendente ha il diritto di avviare un’azione legale. Può rivolgersi al tribunale ordinario del lavoro per avviare una causa civile volta a tutelare i propri diritti e a contestare la legittimità dell’ordine ricevuto.
Diverso è il caso in cui vengano assegnate al lavoratore mansioni ritenute inferiori o in caso di trasferimento illegittimo cioè non giustificato da ragioni organizzative e produttive.
Il lavoratore, infatti, non può entrare nel merito delle scelte aziendali e rifiutarsi a priori e/o ingiustificatamente di adempiere, poiché potrebbe essere accusato di inadempimento contrattuale o insubordinazione.
In questi casi, l’iter strategicamente più opportuno da seguire è domandare formalmente (dinanzi al Giudice del Lavoro, previa diffida al datore) che la sua prestazione sia ricondotta nell’ambito della qualifica o, nel caso del trasferimento, può contestare il trasferimento illegittimo avviando un’azione legale.
Qualora il datore di lavoro dovesse ricevere una segnalazione da parte del lavoratore rispetto ad un ordine ritenuto illegittimo (impartito da lui stesso o da altro dipendente “superiore”), il suggerimento è approfondire la questione con un avvocato attivo nell’area del diritto del lavoro. In alcuni casi, infatti, l’illiceità della richiesta è palese ma in altri il confine è sottile e va analizzato più nel dettaglio.
Dinanzi all’esecuzione di un’attività illecita su ordine di un superiore, il datore di lavoro potrebbe anch’egli avere ripercussioni legali, oltre che reputazionali. Questo perché non solo il comportamento illegale può essere perseguito dalle autorità competenti, ma può anche influenzare negativamente la percezione pubblica dell’azienda, danneggiando la sua immagine e potenzialmente le sue operazioni commerciali.
Il datore di lavoro, tenuto conto della condotta illecita e delle singole circostanze del caso, potrebbe quindi comminare al lavoratore che impartisce l’ordine (ma anche a chi lo esegue senza opporsi) il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. Questa azione drastica è giustificata dall’esigenza di mantenere l’integrità e la legalità all’interno dell’ambiente di lavoro.
In caso di disobbedienza da parte del lavoratore a un ordine legittimo, il datore di lavoro deve valutare con attenzione le motivazioni dietro il rifiuto. Se la disobbedienza si basa su una percezione errata dell’ordine come illecito, è necessario un dialogo costruttivo per chiarire la situazione e riaffermare le norme aziendali. Tuttavia, se la disobbedienza persiste nonostante la legittimità dell’ordine, il datore di lavoro può considerare misure disciplinari appropriate, includendo avvertimenti formali o il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c., a seconda della gravità e delle circostanze specifiche.
È essenziale che il datore di lavoro mantenga un approccio equilibrato e giuridicamente informato in queste situazioni, ricorrendo alla consulenza legale quando necessario e agendo sempre in modo da preservare sia gli interessi dell’azienda sia i diritti dei dipendenti. Questo non solo aiuta a prevenire le conseguenze legali, ma anche a costruire un ambiente di lavoro basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
Debora Teruggia