La felicità nel 2025 si presenta come un concetto sempre più sfaccettato e complesso, influenzato da fattori tecnologici, socio-economici e culturali. Questo articolo analizza le diverse percezioni della felicità attraverso le generazioni, dai Baby Boomer alla Generazione Z, evidenziando come ciascun gruppo affronti le sfide del benessere in un contesto in continuo cambiamento. Attraverso teorie consolidate, come la curva a U della felicità di Andrew Oswald, e studi longitudinali, come quello condotto da Harvard sull’età adulta, il testo approfondisce gli approcci scientifici che cercano di spiegare cosa determini davvero la felicità.
La felicità è un tema universale, ma nel 2025 appare più complessa e sfaccettata che mai. Il progresso tecnologico, la sostenibilità e i cambiamenti socio-economici hanno trasformato il mondo del lavoro. L’iperconnessione sta ridefinendo le nostre priorità, felicità inclusa.
Diversi studi, istituzioni e ricercatori, nella storia, hanno provato a decifrare le dinamiche che regolano il benessere umano. Ma prima di addentrarci in questa analisi scientifica, permettetemi di trattare il tema della felicità con un tocco di approssimazione ironica, quasi da oroscopo.
Nonostante queste differenze generazionali, quindi, la felicità rimane il cuore delle aspirazioni di tutti. Purtroppo, però, sembra diventare sempre più sfuggente. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i disturbi mentali colpiscono circa 1 persona su 8 a livello globale, con oltre 301 milioni di persone affette da disturbi d’ansia e 280 milioni da depressione (vedi anche “Millennials e generazione Z nel baratro del Tso: mille casi in cinque anni”- la Repubblica – 29 dicembre 2024).
Questi numeri sottolineano una verità fondamentale: la felicità non è solo una questione personale, ma un tema collettivo, radicato in dinamiche sociali, economiche e psicologiche che meritano di essere esplorate. Per capire cosa ci rende davvero felici, possiamo affidarci a una delle teorie più affascinanti sviluppate dalla scienza: la curva a U della felicità.
La felicità non è una linea retta. Nel corso della vita, segue un andamento che economisti e psicologi definiscono come curva a U: un modello che suggerisce un calo del benessere durante la mezza età, seguito da una risalita nella vecchiaia. Questa teoria, ormai consolidata, è stata arricchita da contributi fondamentali come quelli di Andrew J. Oswald.
Nel 2014, Dilip V. Jeste e Andrew Oswald hanno pubblicato lo studio “Individual and Societal Wisdom: Explaining the Paradox of Human Aging and High Well-Being”. La ricerca esplora un paradosso intrigante: nonostante il declino fisico e le difficoltà tipiche dell’invecchiamento, le persone anziane tendono a sperimentare un maggiore benessere psicologico. Gli autori attribuiscono questo fenomeno all’aumento della saggezza individuale, che si esprime attraverso una regolazione emotiva più efficace e una maggiore empatia. Anche la saggezza sociale, fatta di compassione e supporto reciproco, gioca un ruolo cruciale nel migliorare la qualità della vita.
Nel 2017, Oswald, insieme a Terence C. Cheng e Nattavudh Powdthavee, ha pubblicato Longitudinal Evidence for a Midlife Nadir in Human Well‐Being (Cheng, Powdthavee, Oswald, 2017). Lo studio conferma la presenza di un nadir del benessere intorno ai 40-50 anni, seguito da una risalita nella terza età. Analizzando quattro grandi dataset internazionali, tra cui il British Household Panel Survey (BHPS) e il German Socio-Economic Panel (SOEP), la ricerca ha dimostrato che la curva a U è un fenomeno globale, osservabile in culture e contesti economici diversi.
Secondo gli autori, il calo della felicità durante la mezza età è influenzato da fattori come:
Tuttavia, superato il nadir, il benessere tende a risalire. Una riduzione delle responsabilità e un equilibrio emotivo più maturo permettono di riscoprire una felicità più solida e consapevole.
Non tutte le generazioni, però, vivono la curva a U nello stesso modo. I Baby Boomer, per esempio, hanno beneficiato di un contesto economico favorevole, che ha reso il loro percorso meno accidentato. Al contrario, i Millennial e la Generazione Z devono affrontare difficoltà contingenti che complicano il loro cammino. Contratti temporanei, gig economy e mercati competitivi hanno reso difficile pianificare il futuro, mentre l’iperconnessione e la pressione sociale online hanno contribuito a un aumento dei disturbi d’ansia e depressione.
La curva a U, tuttavia, ci insegna che la felicità non è un punto fisso. Cambia, evolve e può migliorare, grazie all’esperienza e alle dinamiche sociali. Ma questa teoria non è l’unico strumento per esplorare cosa ci rende davvero felici. Uno studio che va avanti da più di 80 anni – condotto da Harvard – ci offre un’ulteriore chiave per comprendere il benessere. Vediamo di cosa si tratta.
Cosa ci rende davvero felici? È una domanda che, per quanto semplice, ha affascinato scienziati, filosofi e psicologi per secoli. Tra le ricerche più importanti che hanno cercato di rispondere a questa domanda, lo studio di Harvard sull’età adulta e lo sviluppo umano occupa un posto unico, perché va avanti da 87 anni.
Avviato nel 1938, questo studio ha seguito centinaia di persone nel corso della loro vita, fornendo una prospettiva scientifica senza precedenti sulla felicità e il benessere.
Lo studio di Harvard è nato con una domanda ambiziosa: Cosa porta le persone a vivere una vita buona e soddisfacente? Per rispondere, i ricercatori hanno selezionato due gruppi di partecipanti:
I ricercatori hanno monitorato questi uomini per decenni, raccogliendo dati su ogni aspetto della loro vita: carriera, salute, relazioni e stati emotivi. Le interviste, i questionari e i controlli medici hanno creato un archivio inestimabile di informazioni.
La scoperta principale? Non erano il successo professionale, la fama o le ricchezze a determinare la felicità. La qualità delle relazioni personali si è rivelata il fattore più importante per il benessere, sia fisico che mentale.
Secondo George Vaillant lo psichiatra che ha guidato lo studio per tre decenni (dal 1972 al 2004) il messaggio più chiaro dello studio è che le relazioni buone ci rendono più felici e più sani. Anche il suo successore, Robert Waldinger, psichiatra e professore presso la Harvard Medical School, ha sottolineato che le persone che hanno relazioni solide vivono più a lungo, sono più sane e si sentono più felici.
Ma perché le relazioni sono così fondamentali? Lo studio ha individuato almeno tre motivi principali:
Le scoperte dello studio di Harvard si scontrano con molti dei valori ancora dominanti nella società contemporanea. Nel mondo odierno, la felicità viene spesso associata a risultati tangibili: una carriera brillante, uno stipendio elevato, una casa di lusso. Ma questi traguardi, per quanto gratificanti a breve termine, non garantiscono la felicità.
Tra i partecipanti dello studio, coloro che avevano dato priorità al successo materiale a scapito delle relazioni si ritrovavano, in età avanzata, a fare i conti con solitudine e rimpianti. Al contrario, chi aveva investito nelle relazioni si dichiarava più soddisfatto e sereno.
Non si tratta solo di avere molte persone intorno, ma di costruire legami profondi e significativi. Amicizie, rapporti familiari e relazioni di coppia basate sulla fiducia e sull’empatia possono trasformare la qualità della vita, offrendo un rifugio contro lo stress e le difficoltà. E adesso che l’abbiamo capito, siamo pronti a cambiare qualcosa?
La verità è che non sappiamo cosa sia esattamente la felicità. Di sicuro, la sua ricerca non implica né un metodo né una strategia definita. Ogni persona è unica e deve affrontare sfide e crisi personalissime.
È vero: i Baby Boomer non hanno fatto la guerra e, oltretutto, hanno goduto di vantaggi che alle generazioni successive sono stati in gran parte negati. Ma la tattica del rinvio, che ha spostato per decenni i problemi in avanti, non è una prerogativa dei Boomer: è umana. In un modo o nell’altro, siamo arrivati fin qui, e non possiamo ignorare il fatto che oggi ci troviamo davanti a sfide senza precedenti.
Il cambiamento climatico e l’inquinamento richiedono azioni immediate, mentre l’intelligenza artificiale, con tutte le sue contraddizioni, è già tra noi. Per questo, le nostre riflessioni devono essere etiche, orientate a scelte lungimiranti (vedi anche L’IA è solo uno specchio e ci ricorda quanto siamo umani – Canella Camaiora).
Non possiamo più permetterci di ignorare ciò che conta: abbiamo imparato che le risorse finiscono, che il merito deve essere oggettivo e che non si può adottare la tattica del rinvio eterno. Senza colpevolizzare nessuno, il dialogo intergenerazionale è essenziale per guardare al futuro con responsabilità. Le generazioni devono imparare a comprendersi, accantonare il livore e evitare di puntare il dito contro questa o quella generazione. Gli errori del passato, però, sono lezioni oggettive, e occorre analizzarli per non ripeterli.
La ricerca della felicità nel 2025, quindi, non può prescindere dai grandi temi del nostro tempo. Vivere in un mondo più equo e ragionevole contribuisce al benessere collettivo, che a sua volta influisce sulla felicità individuale.
Pensiamo, ad esempio, all’impatto delle politiche ESG (ambientali, sociali e di governance):
Le relazioni umane, il nostro rapporto con il tempo e l’attenzione verso il mondo che ci circonda sono centrali per la felicità. Ma per costruirla ci vuole consapevolezza e intenzionalità:
Alla fine, la felicità non è un dono del destino. È una scelta quotidiana, un equilibrio tra accettare ciò che non possiamo controllare e agire su ciò che possiamo cambiare. La curva a U e lo studio di Harvard – statisticamente – possono dirci molto, ma non sono formule magiche. Non esiste una ricetta unica per condurre una vita più ricca di significato e soddisfazione.
E nel mondo interconnesso e sfidante del 2025, forse non c’è niente di più rivoluzionario che coltivare legami autentici, assumersi le proprie responsabilità e, in fin dei conti, scegliere volontariamente di essere felici.
Avvocato Arlo Canella