Il “mobbing” non è sempre così semplice da riconoscere.
Tutti sappiamo a grandi linee che consiste nei maltrattamenti, posti in essere dal datore o comunque da un superiore, ai danni del dipendente. Spesso, tuttavia, i nostri clienti lo confondono con qualsiasi tipo di vicenda conflittuale sul posto di lavoro (per richiedere assistenza personalizzata in materia di diritto del lavoro vi invitiamo a contattarci).
Il termine mobbing ha origine dal verbo inglese “to mob” (attaccare) ed è stato usato per la prima volta in etologia per individuare il comportamento di alcuni animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo attaccandolo, emarginandolo e provocandone, nei casi estremi, la morte.
La definizione più conosciuta è la seguente. “Forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe” (Gilioli e Cassitto).
Da questa definizione appare chiaro quali siano le caratteristiche principali del mobbing:
Il mobbing in poche parole non è altro che un processo sistematico e – voluto – di cancellazione della figura del lavoratore.
L’esempio di questa cancellazione è l’eliminazione dei mezzi e dei rapporti interpersonali.
Quando l’attività lesiva è realizzata dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente prende anche il nome di “bossing” (o “mobbing verticale”).
Può accadere, invece, che siano i lavoratori a trattare male un loro collega.
In questo caso il fenomeno si parla di “mobbing orizzontale”.
Esiste poi anche il c.d. “quick mobbing”: in questo caso è sufficiente il manifestarsi anche di una sola violentissima azione vessatoria per destabilizzare il soggetto senza rispettare quindi il criterio dei sei mesi.
Ma se dal punto di vista teorico definire il mobbing non è particolarmente complesso, dal punto di vista pratico come si può fornire al Giudice la prova dei fatti?
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione che ha esaminato un caso di mobbing ci ricorda quali sono gli elementi fondamentali affinché si possa configurare il reato di mobbing (Sent n. 2142 del 27 gennaio 2017). Il caso esaminato dalla Cassazione è quello di un agente di Polizia Municipale che ha subito abusi e umiliazioni sul luogo di lavoro, preordinate e volute per finalità ritorsive, avendo l’agente dato luogo a rimostranze, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime.
L’agente era stato anche lasciato inattivo e isolato per molto tempo, senza scrivania e ufficio, costretto stare in piedi in un corridoio.
Ad un certo punto venne assegnato allo svolgimento “di pratiche cimiteriali” ed accompagnato all’entrata del cimitero municipale ove gli venne detto che “quella era la sua sede di lavoro”.
La Cassazione, nell’esporre le motivazioni della conferma della condanna, ricorda gli elementi fondamentali per configurare l’illecito di mobbing (in questo caso, in particolare, dal punto di vista penalistico):
Nel caso in questione numerose testimonianze hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un danno biologico comprovato.
Ha rilevato anche il comportamento degli altri agenti in servizio nel Comune. Essi «hanno allontanato il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di condotte ritorsive» e si sono rifiutati di testimoniare.
In poche parole, qualora il lavoratore riesca a provare il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni patite, ha diritto a essere risarcito. La Cassazione infatti ha respinto il ricorso del Comune confermando la condanna.
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Antonella Marmo